sabato 14 maggio 2011
Non sarebbe forse la musica la lingua perduta, della quale abbiamo dimenticato il senso, e serbata soltanto l'armonia?

Come c'intenderemo in paradiso con la confusione delle lingue che gli eletti «di ogni tribù, lingua, popolo e nazione» (Apocalisse 5,9) vi porteranno? La risposta, in un certo senso, ce l'ha offerta il teologo Karl Barth quando ipotizzava simpaticamente che per la liturgia celeste si usasse Bach e per la quiete profana delle celle luminose si adottasse Mozart. In pratica, la musica sarebbe come «la lingua perduta sulla terra» dopo il peccato e ritrovata nella pienezza paradisiaca. Qualcosa del genere suggeriva più "laicamente" Massimo d'Azeglio nel passo da noi tratto oggi dagli autobiografici I miei ricordi editi nel 1867, un anno dopo la sua morte. Un altro scrittore, in questo caso l'ebreo nostro contemporaneo, Elie Wiesel, usava un'immagine suggestiva: «La musica è la scala di Giacobbe che gli angeli hanno dimenticato sulla terra».
Ricordano tutti la scena della visione di quel patriarca biblico: «Una scala poggiava sulla terra, mentre la cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa» (Genesi 28,12). La scala musicale è come una scala per ascendere a Dio. La grande musica di tutti i secoli riesce a far questo, a tal punto che Shakespeare, nel suo Mercante di Venezia, affermava: «L'uomo che non ha musica dentro di sé ed è insensibile alle dolci melodie, è pronto ai tradimenti, agli inganni e alle rapine». Purtroppo, c'è anche una sonorità devastante e dionisiaca, o più semplicemente una brutta musica che riesce a lambire pure le nostre chiese. In un Paese glorioso per le sue composizioni com'è l'Italia, la musica è una cenerentola scolastica e persino sociale. Il rumore irrompe e prevarica. Già nel VI secolo Cassiodoro ammoniva: «Se commettiamo ingiustizia, Dio ci lascerà senza musica».
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