mercoledì 30 luglio 2014
Ciò che innanzitutto colpisce nel Contrasto dell'uomo e della donna di Fabrizio Sinisi (CartaCanta editore, Forlì 2014, pp. 80, euro 10) è la davvero non comune maestria di versificazione, nell'uso spregiudicato e innovativo della forma chiusa.Al modo dei Contrasti medievali, dialoghi fra l'uomo e la donna, (Rosa fresca aulentissima di Cielo D'Alcamo), o dando la parola a oggetti inanimati secondo la figura retorica della «prosopopea» (la rosa e la viola, eccetera), Sinisi istaura un dialogo combattivo tra un io dubitante e un tu femminile che appare meglio esperienziato.Sono trentadue doppie ottave simmetricamente distribuite in quattro capitoli. L'endecasillabo è perfetto (solo in un paio di occasioni l'accento è sulla quinta sillaba) e la struttura della rima talvolta è classica (sei versi a rima alternata e due in rima baciata: ABABABCC), ma più spesso è ABABCBCC, come in certi madrigali di Alessandro Contarini («A che ferirmi, ahi, dispietato arciero»), costruzione affine all'anglosassone strofa spenseriana (Edmund Spenser, 1552-1599).Il Contrasto di Sinisi è un consapevole omaggio alle Canzonette mortali di Giovanni Raboni, le quali avevano l'inconfondibile timbro amoroso raboniano in un metro meno rigoroso. Sinisi (Barletta, 1987) è ricercatore nell'università di Bari, ha pubblicato da Archinto la raccolta poetica La fame (2011) e svolge un'intensa attività teatrale come aiuto regista nel Teatro laboratorio della Toscana, diretto da Federico Tiezzi. Lo scorso anno ha presentato al Meeting di Rimini una drammatizzazione delle Confessioni di Agostino.L'eco di Raboni, nel Contrasto, si coglie anche nelle localizzazioni milanesi («da via Larga a via Festa del Perdono», percorso caro anche a Sinisgalli; «Lanza-Brera-Piccolo Teatro»), ma poi c'è anche Roma («gli architravi di Termini»; «la Salita del Grillo»; «via Tre Cannelle», «Centocelle»), e anche Venezia («sfiatati ci appoggiavamo ai calanchi / neri di Palazzo Ducale»), e perfino Termoli. Questa instabilità paesaggistica, se da un lato è coerente con la precarietà identitaria dei protagonisti, dall'altro impedisce che il dettato si fissi stabilmente nella memoria del lettore che, attirato dalla circolazione dei sentimenti, si aspetterebbe un più profondo scavo.C'è anche una caduta scurrile che Raboni non si sarebbe mai concesso. A questo proposito è significativo che nella prima edizione delle Canzonette mortali (Crocetti, 1986) fosse inclusa una sestina à la Arnaut Daniel, che non figurerà in Tutte le poesie (Garzanti, 1997) e neppure nel postumo Meridiano (Mondadori, 2006). L'esclusione, mi piace congetturare, forse è per motivi tecnici, perché la sestina è la più impervia delle forme chiuse, e l'ungarettiano «Recitativo di Palinuro» (nella Terra impareggiabile, 1950) è difficilmente emulabile; ma anche perché nella sestina raboniana c'è un doppio senso dimenticabile. Ricordo l'episodio come sfida a Sinisi che, con la sua padronanza metrica, potrebbe ben cimentarsi nella sestina. Avevo accennato alla precarietà identitaria dei protagonisti: lui chiede a lei una risposta per riconoscere sé stesso, forse (per citare un poeta che non amo, Mario Luzi) ancora nell'«età immodesta e leggera, / quando si aspetta che altri, / chiunque sia, diradi queste ombre»; lei è appesantita da un passato da cui sembra difficile il distacco, entrambi in confusione tra amore e biochimica. Davide Rondoni, che dirige la collana e firma il risvolto, si chiede: «Un amore solo dispendio o acquisto, un incontro come conferma di una fatale mancanza e malora o scoperta? Si vede il cielo da questa finestra?». Ne condivido la conclusione: «La lingua italiana, nutrita di molte linfe eppure sciolta da ogni obbligo letterario, si mostra qui in uno strano sfarzo, ancora viva, ancora antica e futura».
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