giovedì 5 aprile 2018
Di quell'esotico nome di donna, Cabiria, Federico Fellini si ricorderà nel 1957 per il delicato e dolente Le notti di Cabiria, dove Giulietta Masina interpreta la prostituta di buon cuore travolta dal cinismo di un'Italia già sul punto di dimenticare sé stessa. Per il resto del pubblico, invece, il nome da ricordare è quello di Maciste, l'eroico guerriero dalla muscolatura invincibile e dall'animo gentile. Il personaggio – destinato a una considerevole fortuna – fa la sua prima apparizione proprio in Cabiria, diretto nel 1914 da Giovanni Pastrone con gran dispendio di mezzi e con il fondamentale apporto del poeta Gabriele d'Annunzio. Un intervento più che altro simbolico, quello del Vate, che però raggiunge l'immaginario popolare con pochi colpi ben assestati, il principale dei quali è senza dubbio l'invenzione del mito di Maciste: a impersonare il forzuto sullo schermo è l'esordiente Bartolomeo Pagano, in precedenza scaricatore al porto di Genova.
Tutto è leggenda, in questo film che alla leggenda riporta anche il dato storico di partenza, che sarebbe quello delle guerre puniche, tra Annibale che varca le Alpi e la sconfitta dei cartaginesi a Zama. Argomento non del tutto innocente sotto il profilo politico, se si considera che solo un anno prima, nel 1913, l'Italia giolittiana ha definitivamente intrapreso la campagna di Libia. Ma non è per questo che Cabiria è passato alla storia, e alla storia del cinema in particolare. Girato fra gli studi di Torino e le montagne del Piemonte, ma anche fra la Sicilia e la Tunisia, il film segna l'apogeo dell'allora preponderante industria cinematografica italiana. Una Hollywood ante litteram che – anziché sul Tevere, come accadrà nel secondo dopoguerra – si affaccia sulla Dora Riparia e mette all'opera squadre imponenti di tecnici e artigiani. Il tempio di Baal, l'idolo pagano che pretende il sacrificio di vittime umane, è il centro emotivo ed estetico dell'intero racconto, in una fantasiosa ricostruzione che porta alle estreme conseguenze i gusti dell'orientalismo tardo-ottocentesco, esaltandoli in un tripudio di fiamme e processioni.
I dettagli della trama si possono anche dimenticare, ma quella visione resta indelebile nella memoria dello spettatore. La protagonista, Cabiria, ha il volto di una delle stelle dell'epoca, Lidia (o Lydia) Quaranta. Ancora bambina, è stata strappata da Maciste alle fauci del Baal e adesso la sua esistenza si intreccia con quella dell'infelice regina Sofonisba. Intrighi e battaglie, scontri campali e congiure di palazzo si sciolgono davanti al coraggio del guerriero Fulvio Axilla (l'attore Umberto Mozzato), grazie al quale Cabiria troverà l'amore e riscoprirà le proprie radici romane. Anche se non intervenisse l'enfasi delle didascalie dettate da D'Annunzio, la retorica avrebbe comunque la meglio, ma è una retorica che, per quanto superata e perfino discutibile, non ha ancora esaurito la sua efficacia persuasiva. Il merito, ripetiamolo, è solo in parte del racconto e poggia in misura molto più ampia sull'apparato visivo in cui è inglobato. Sotto questo profilo, oltre che da D.W. Griffith e dagli altri maestri del cinema americano, la lezione di Pastrone sarà fatta propria dai totalitarismi del Novecento, programmaticamente sfarzosi nella messinscena di sé stessi. Quanto al nerboruto Maciste, non si sbaglia troppo se lo si considera il capostipite degli Avengers, degli X-Men e dei vari supereroi che negli ultimi decenni ci hanno cullato nell'illusione che la ragione del più forte coincida di preferenza con la forza della ragione. Tornare alle origini può essere, se non altro, un'occasione per ripensarci. Ammirando quel che c'è da ammirare e dissentendo su quello di cui l'esperienza ci ha insegnato a dubitare.
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