sabato 15 ottobre 2005
Teresa d'Avila, quando preparava da mangiare alle sue consorelle, era intenta alla buona cottura di un piatto e nello stesso tempo concepiva splendidi pensieri su Dio. Esercitava quell'arte di vivere che è l'arte più grande: gioire dell'eterno prendendosi cura dell'effimero.
Quante ambiguità interpretative si sono consumate intorno alle due figure femminili evangeliche di Marta e Maria, lette sbrigativamente come i rispettivi emblemi della vita attiva e di quella contemplativa, con la prevalenza elogiativa della seconda sulla prima. In realtà, il limite di Marta - come osserva Luca - è nel suo essere «tutta presa dai molti servizi», perdendo di vista «la sola cosa di cui c'è bisogno», per «preoccuparsi e agitarsi per troppe cose» (Luca 10, 38-42). L'effimero, pur necessario (Gesù, dopo tutto, amava sedersi alla tavola preparata dai suoi ospiti), non deve scindersi radicalmente dall'eterno, isolandolo o peggio annientandolo. È ciò che ci viene ricordato dalla nota sopra citata, desunta dal libretto Il distacco dal mondo dello scrittore francese Christian Bobin (ed. Servitium) e centrata sulla santa di cui oggi il calendario fa memoria, la grande Teresa d'Avila, mistica e donna di azione, contemplativa ma anche figura intellettuale di primo piano, dolce e provocatoria al tempo stesso. La sua capacità di tener unito in un nodo d'oro l'effimero e l'eterno, il relativo e l'assoluto, la cucina con la meditazione, sapendo che questi due poli sono distinti ma non separati, è una lezione preziosa per tutti. È per questa via che si costruisce una fede incarnata, che non veleggia dalla carità quotidiana verso vaghi cieli mitici ma neppure si dissolve in un attivismo storico esteriore. È questo l'equilibrio fondamentale dell'Incarnazione cristiana.
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