martedì 27 novembre 2012
Un'amica mi racconta un sogno, un incubo classico, però con un finale imprevisto, e da trattenere. È aggrappata alla parete di un burrone. Intorno è buio, la roccia è scivolosa e le dita non sono più in grado di reggere il peso del corpo. Inesorabilmente si aprono, stanno per cedere, come la sua volontà. In quel momento, sotto di lei, a molti metri di distanza, arriva un'auto. Si arresta, la portiera si apre e la persona alla guida scende. Lei riconosce sua sorella, donna energica e protettiva, leggera e profonda, mancata troppo presto. La sorella tende un braccio e la stacca dalla parete come un cartone animato, mentre le dice: «Ma cosa fai lì!». Di colpo, la parete a cui lei era aggrappata si rivela inconsistente, immateriale, nient'altro che un grumo di timori diventato pietra, montagna. Anche la distanza abissale appare un'allucinazione. In basso, a pochi centimetri, c'è una strada, alla luce del giorno, basta mettere i piedi a terra e seguirla rimettendosi a camminare, come sta facendo la sorella nel suo nuovo viaggio. Ci saranno altri pericoli, altri precipizi? Di certo sì. Eppure, l'eco di quel «ma cosa fai lì!» le impedirà, forse per sempre, di trasformarli in un assurdo ultimo appiglio. Sua sorella non l'ha soltanto salvata, le ha mostrato che morire può essere facile. Vivere è di gran lunga più difficile.
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