martedì 31 ottobre 2023
Non so in quale modo ognuno di noi gestisca l’attesa, ma la vita è piena di situazioni in cui l’attesa si presenta. Ci siamo abituati ad aspettare per cose banali (il semaforo per proseguire il viaggio, il nostro turno nella fila del supermercato, il segnale di inizio o di conclusione di un’attività…) come pure per ciò che ha un impatto decisivo, e che ognuno di noi ben sa cosa sia. Abbiamo aspettato per incontrare e congedare, per parlare e ascoltare, per accogliere, rivedere e ricominciare. Un’attesa che può essere perfettamente neutra e di routine, o può essere attraversata dallo scompiglio dell’allegria oppure sovraccaricarci con il peso di un dolore. Sono, però, tutte tappe che ci formano alla complessa arte di essere. L’attesa è una briciola di quello che siamo. Non è un tempo che ci viene rubato: è tempo offerto. Non a caso il libro biblico del Siracide descrive in questi termini la maturazione spirituale: «Figlio, […] preparati alla prova» (Sir 2,1). Lo psicanalista Donald Winnicott ricordava, per esempio, che i giocattoli in mano a un bambino gli servono a elaborare positivamente l’attesa. La mamma dà il giocattolo al figlio e va ad occuparsi d’altro. Il giocattolo, in questo caso, diviene una sorta di rappresentante, non esattamente della madre ma della speranza che lei ritorni. Fin dall’infanzia, le attese ci insegnano che il nostro patrimonio più importante è, in realtà, la speranza. © riproduzione riservata
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