giovedì 28 luglio 2016
L'espressione romanesca «l'animaccia tua» è un modo di dire aggressivo e affettuoso ma anche no. Una specie di saggezza popolare che mentre dice una cosa ne fa trapelare un'altra. Dunque l'anima c'è, sembrerebbe venir fuori da questo cumulo di tradizione linguistica. Se pongo mente ai miei amici più cari, quelli con i quali ho condiviso qualche battaglia, una mezza dozzina di loro non c'è più. Tutti finiti in cenere, dentro cassettine di nessuna dimensione. Se dovessi radunarli insieme, pur ognuno con la sua ragguardevole storia, starebbero dentro una sola valigia, che potrei portare tranquillamente con me. Ricordo quel film in cui, per errore, hanno messo nella pastasciutta un pizzico di ceneri del nonno, anziché le spezie. So dell'episodio di un'urnetta funeraria rovesciata con ceneri finite anche sotto i mobili e raccolte con l'aspirapolvere, che ora è in casa presente come un requiem. E l'anima? Alla mia valigia corrispondono dunque sei anime? Erano tanti anni fa, la notte, in riva a un ruscello di montagna, con l'acqua fra pesci e sassi, piena di lumini, specchiati dalle stelle. Cantavamo «Stelle del cielo non piangete su John Brown , stelle del cielo sorridete su John Brown, ma l'anima vive ancor, glory alleluia...». Cercavo l'anima in quel punto a caso del mondo.
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