giovedì 9 giugno 2016
Anche il paesaggio naturale deve la sua esistenza a viaggi incessanti che nemmeno supponiamo. L'architetto paesaggista Gilles Clément ci aiuta a vedere, per esempio, come tutti i giardini siano spazi in movimento. Le piante, che paiono segni immobili, in realtà viaggiano. I loro semi furono portati da venti, da correnti marittime, giunsero nelle suole dei sandali di un viaggiatore disattento, nella pelle degli animali. Furono introdotte in forma deliberata o puramente casuale. Il metrosideros viene dalla Nuova Zelanda. La tipuana e la iacaranda, dall'America del Sud. Il ficus proviene da un'ampia regione che si estende dal subcontinente indiano alla Malesia e all'Indonesia. La strelitzia, o “uccello del Paradiso”, è originaria del Sudafrica. Se ci pensiamo bene, qualsiasi inoffensivo giardino è, in fin dei conti, una sorta di mappamondo. Quando ci soffermiamo sull'idea di viaggio, lo pensiamo comunque, fondamentalmente, come un'attività umana. Si può affermare che il primo viaggio fu realizzato dal primo uomo che abitò la terra, così che viaggiare è divenuto sinonimo di questo homo viator che, da migliaia e migliaia di anni, siamo noi. All'alba dei tempi si trattava senza dubbio di uno spostarsi funzionale, legato alla lotta per la sopravvivenza. L'uomo lasciava il suo rifugio e attraversava il mondo in cerca di cibo e di condizioni di vita più stabili. Ma è impossibile che il cacciatore primitivo non avvertisse meraviglia e piacere nella pura e semplice scoperta della terra. O che il pastore, nelle sue peregrinazioni stagionali in cerca di pascoli, non si affezionasse alla dolcezza o alla bellezza di alcuni luoghi più che di altri. O che coloro che disegnavano piccole figure sulle pareti delle grotte in cui abitavano non lo facessero anche per evidenziare ciò che riempiva loro gli occhi e il cuore, quantunque il loro stupore non andasse, al tempo stesso, esente da incomprensione e terrore. Ovunque si muova un essere umano, esistono anche la memoria e la passione del viaggio. Ogni epoca, tuttavia, riconfigura a modo proprio l'ideale del viaggio. Penso, per esempio, alla distinzione fra turista e viaggiatore o alla differenziazione tra quest'ultimo e il pellegrino. Lo scrittore Paul Bowles diceva che il turista e il viaggiatore si distinguono per la loro esperienza del tempo, frettolosa quella del turista, lenta quella del viaggiatore: «Laddove, in capo a qualche settimana o mese, il turista si affretta a far ritorno a casa, il viaggiatore non appartiene né a un luogo né all'altro». Analoga distinzione si faceva tra il viaggio profano di un viaggiatore qualunque, che si allarga dappertutto nel suo andare per il mondo, ma senza un concreto obiettivo di trasformazione personale, e il camminare di un pellegrino, che carica il proprio viaggio di un senso sacro e trasformante. Oggi constatiamo però che tali distinzioni si sono attenuate e che ogni viaggiatore, anche accidentale, nutre l'aspettativa che in un modo o nell'altro il suo viaggio venga a rappresentare un atto umano totale: che un viaggio d'affari permetta anche un contatto culturale; che una gita di piacere aggiunga qualcosa di significativo alle sue conoscenze; che un'escursione in massa offra l'occasione di una qualche indimenticabile unicità. Parlando in termini antropologici, il viaggio contemporaneo è diventato una modalità per esporci alla ricerca di senso. Sarà, questo, possibile? Si fatica, ovviamente, ad accostare il turista del XXI secolo a Marco Polo. O a paragonare senza ironia le sue motivazioni a quelle del patriarca Abramo o del monaco cinese Xuánzàng, che visse nel VII secolo a.C. e fu uno dei primissimi a scrivere un racconto di viaggio. Non per questo è meno vero che i milioni di umani che si ammucchiano negli aeroporti pronti per le cosiddette “destinazioni turistiche” condividono un patrimonio simbolico con i veri viaggiatori. E forse varrebbe la pena di riflettere più spesso a partire di qui.
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