venerdì 3 febbraio 2017

L'antropologo Marc Augé stabilisce un parallelo tra il calcio e il procedimento della costruzione di senso in Occidente. Il senso della vita ha perduto, per molti, la sua carica teologica. Parole come "salvezza", "redenzione", "santità", "escatologia" o "destino" si ritrovano come disattivate dal trionfo di un pragmatismo a tutto campo.

È già molto se alcuni di questi termini riappaiono, ricuperati a fini tecnologici, come il caso del verbo "salvare" nella grammatica digitale. Il senso della vita è passato a essere costruito empiricamente, in modo spontaneo e slegato, e senza molto pensarci sopra. Al posto del confronto con le verità ultime, l'opzione è diventata quella di vivere un giorno alla volta. Augé spiega, per esempio, come nel rituale sportivo l'aspettativa coincida con la celebrazione: alla fine di quei novanta minuti, che costituiscono il tempo regolamentare, le sorti sono decise e il futuro avrà già vissuto.

Questo futuro, velocemente condannato all'anteriorità, viene reso possibile ciclicamente: è il carattere tipico di un'epoca e di una società in cui, per soddisfare il desiderio di felicità, sembrano essere sufficienti frammenti di tempo. Limitare il contatto con la felicità a questi bagliori può solo essere equivoco! Per questo Milan Kundera scrisse che c'è una sola domanda importante da farsi nella contemporaneità: perché non siamo felici?

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