martedì 23 marzo 2021
Il Libano è sempre più vicino al collasso. Un Paese strategico per gli equilibri nel Medio Oriente e per tutta l'area mediterranea affronta un'emergenza estrema e vive una crisi che, parole di Papa Francesco al suo rientro dall'Iraq, "è una crisi di vita". È in ballo, dunque, la sua sopravvivenza. E l'Europa sembra assistere inerte e in silenzio. Mentre solo il leader francese Macron negli ultimi giorni accenna a voler riportare l'attenzione su Beirut, Bruxelles e le sue principali istituzioni non aprono letteralmente bocca da mesi.
All'indomani del 4 agosto scorso, quando una terrificante esplosione devastò l'area del porto e una vasta zona della capitale, sembrava che lo slancio solidale e generoso dell'Ue, verso una nazione tra le più vicine alle nostre per storia, cultura e tradizioni democratiche, sarebbe stato accompagnato da attenzione e vigilanza costanti. Il numero uno del Consiglio europeo, il belga Charles Michel, aveva perfino gareggiato sul tempo con il presidente francese nel recarsi di persona sul luogo del disastro.
Di fronte alla dimostrata incapacità o riluttanza delle autorità locali a impegnarsi seriamente per il bene del loro popolo, erano seguiti, accanto all'impegno per
cospicui aiuti economici, ripetuti e chiari inviti a dar vita a un nuovo governo tecnicamente all'altezza, nella massima trasparenza e al di sopra di sospetti di corruzione o partigianeria. A inizio dicembre, infine, nell'ambito della seconda conferenza dei Paesi donatori, è stato varato un programma-cornice denominato "3RF", per soccorrere, riformare e ricostruire il Libano.
In quel documento si dichiara esplicitamente l'urgenza di riforme a livello di governo e socioeconomiche, come "pre-requisito" per ottenere il sostegno internazionale e sbloccare nuovi investimenti. Cento giorni dopo, i partiti e i grandi clan familiari che condizionano il Paese dei cedri non hanno fatto praticamente nessun passo avanti per trovare un'intesa. Solo bracci di ferro, accuse e recriminazioni reciproche, mentre la gente è letteralmente alla fame. Anche l'ultimo forte e quasi disperato appello del patriarca cristiano-maronita Béchara Raï non ha finora trovato il necessario riscontro.
In questo scenario di assoluta emergenza, con perfino il capo dell'esercito che protesta perché le forze armate non hanno cibo e dunque con il rischio concreto di rivolte popolari, Bruxelles resta tranquillamente alla finestra. E mentre giovedì scorso anche il Consiglio di sicurezza dell'Onu ha suonato di nuovo la sveglia alle autorità locali, lo stesso Michel che il 2 dicembre assicurava al Libano "di poter contare su di noi", perché "è un amico e partner chiave da lungo tempo della Ue", non si è più fatto sentire.
Dell'esecutivo comunitario fa parte anche l'Alto Commissario per la politica estera e la sicurezza, una figura che, per definizione, dovrebbe rappresentare la voce dell'Unione nel mondo. L'incarico è ricoperto dallo spagnolo Josep Borrell, il quale pure, dopo la conferenza dei donatori, ha twittato ogni giorno su un'infinità di questioni internazionali e mai più ha nominato il Libano. E pensare che di recente è andato a spiegare alla Fondazione Schuman come fare della Ue "un attore globale"!
Francamente, se l'Europa vuole davvero giocare un ruolo di protagonista nella regione mediorientale, questo grado di disattenzione è incomprensibile e di fatto autolesionista. A fine marzo si svolgerà on line, da Bruxelles, la V Conferenza sul futuro della Siria e della regione, nel cui ambito il Libano tornerà alla ribalta. Ma a che serve dar vita a grandi meeting, stanziare fondi e far approvare documenti solenni e ben articolati, se poi non si sta "sul pezzo"? Se il Libano andrà in frantumi, la reputazione della Ue subirà un colpo decisivo.
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