mercoledì 24 giugno 2009
Noi non eravamo a San Diego, in California, il 21 febbraio 1989 quando Sándor Márai si sparò un colpo di pistola. Ma l'eco di quello sparo, lungamente meditato, ci pare di sentirlo attraverso i suoi ultimi diari (1984-1989) ora pubblicati col titolo L'ultimo dono (Adelphi, pagine 240, euro 18,00). Non abbiamo potuto far niente per evitare quello sparo, non è colpa nostra. Ma ci sentiamo colpevoli lo stesso, perché leggendo i diari entriamo in contatto con un dolore che non ci è stato possibile condividere e ormai è irrimediabilmente lontano, anche se sono passati soltanto vent'anni. Non possiamo far altro che leggere: leggiamo, leggiamo e questo è l'unico possibile suffragio che si fa preghiera. No, non meritava, Márai, di ridursi a spararsi a 89 anni. Era un grande scrittore ungherese, il suo capolavoro, Le braci, è un vertice del Novecento non solo europeo. E noi l'abbiamo conosciuto soltanto nel 1998, per merito di Adelphi che sta pubblicando tutte le sue opere. Antifascista, antinazista, anticomunista, Márai dovette lasciare il suo Paese nel 1948: dopo qualche peregrinazione, anche in Italia, a Salerno, si stabilì appunto a San Diego. Rifiutò l'aureola dello scrittore in esilio: egli volle essere sempre e soltanto uno scrittore "ungherese". Non scrisse dunque mai in inglese, il che non favorì la sua popolarità all'estero, anche se fu circondato da rispettosa ammirazione (per gli 84 anni, il presidente Reagan e sua moglie gli fecero giungere un messaggio augurale). Non ricco, ma con una certa agiatezza, mantenne sempre i contatti con l'Ungheria, ne leggeva le riviste, seguiva i nuovi autori. In patria la sua fama era consolidata, ma egli rifiutò l'offerta di pubblicazione dell'opera omnia fino a quando ci fossero soldati russi in Ungheria. Gli ultimi anni raccolti nei diari, sono costellati di lutti. Nel 1985 muore Gabor, l'ultimo dei suoi tre fratelli, il più giovane. Il 23 aprile 1987 muore improvvisamente János, il figlio adottivo quarantaseienne, che solo allora Márai scopre di aver amato con intensità. Ma soprattutto, e definitivamente, il 4 gennaio 1986 era morta Lola, la sua compagna di vita, diventata tutt'uno con lui nei 62 anni del loro matrimonio. Negli ultimi mesi lo scrittore si era dedicato esclusivamente a curare la moglie inferma: solo qualche annotazione di diario, la letteratura lo disgusta. Di notte legge i classici, i testi di Krúdy che considera suo maestro, e speriamo che Adelphi lo faccia conoscere anche a noi. Malfermo, quasi cieco, Márai continuava a vivere per lei: «Il senso della vita non procede di pari passo con il prolungarsi della sua durata». Lola era sempre bellissima, anche nella malattia e quasi impossibilitata a comunicare: «È molto bella, talvolta la bellezza del tramonto è più convincente della bellezza trionfante della gioventù». Dopo la morte di Lola, Márai legge il centinaio di quaderni a cui la moglie aveva affidato la sua vita, la vita di tutti e due. Rimugina la sua ultima frase articolata: «Ma quanto ci metto a morire». «Non accuso Dio né l'uomo, nessuno. Non mi aspetto nulla. Ho accettato ciò che è successo», scrive Márai. E più tardi: «Dio è molto buono. Ma di questo non si deve parlare». Il 27 agosto 1988 scrive ancora: «Oggi mi sono mancate molto la nobiltà e l'eleganza del corpo di L. Il suo sorriso. La sua voce». Un mese dopo la dispersione nell'oceano delle ceneri di Lola, Márai aveva acquistato una pistola. Quattro mesi dopo si era iscritto a un corso per imparare a usarla. Passano circa tre anni (non tredici mesi e mezzo, come dice il risvolto), durante i quali subisce anche un lieve intervento chirurgico. Il 15 gennaio 1989, le ultime righe del diario: «Aspetto la chiamata alle armi, non la sollecito, ma non la rinvio neppure. È giunto il momento». Il 21 (o forse il 22) febbraio, il colpo di pistola. Oggi, la nostra tardiva partecipazione al suo dolore.
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