venerdì 24 gennaio 2014
Battista era cugino del nonno paterno ed essere stato scultore nel primo Novecento non sarà stata una vita semplice. Qualche opera funeraria, collezionismo improbabile e finito lì. Il peggio fu che, a causa delle schegge di marmo negli occhi, divenne cieco e la sua carriera finì a quarant'anni. Lo incontrai una sola volta e già lo accompagnavano sottobraccio; io ero neonato nella culla e lui si chinò a sfiorarmi il viso, raccontavano i miei, con i polpastrelli, quasi modellasse una testina di creta. Come nei romanzi di Mario Tobino, Battista, non potendo più scolpire, impazzì. Nell'archivio del manicomio, dove trascorse gli ultimi tre anni della sua vita, rinvenni la sua cartella clinica; era classificato come muratore per via, mi spiegò il direttore, che al suo tempo, quello dell'ergoterapia, lo avevano come scultore, probabilmente aggregato alla squadra dei pazienti edili. Per anni non ebbi alcuna sua opera, poi un tiranno profittò, vendendomene una a prezzo predatorio. Si tratta di una lastra di marmo di Carrara, della dimensione di un giornale formato tradizionale, spessa mezza spanna, praticamente un altorilievo. Due angeli inginocchiati ai due lati si fronteggiano e la postura è tale da far pensare a quelli dell'antica arca dell'alleanza. Stilisticamente, ricordano le figure allungate degli angeli della porta centrale, bronzea, del duomo di Milano. Nel mezzo è adagiato il libro aperto, che mi richiama le pagine al vento del vangelo esposto sulla bara, adagiata a terra, di Giovanni Paolo II in piazza San Pietro. È l'arca del mio viaggio, che seguo con la mia faccia che lui, cieco, un po' modellò.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI