mercoledì 25 febbraio 2009
Nicola Lecca è il più dotato dei giovani scrittori. Ha esordito ventitreenne nel 1999 con gli splendidi «Concerti senza orchestra»; l'anno dopo, ecco «Ritratto notturno», e poi «Ho visto tutto» (2003); nel 2007, «Ghiacciofuoco», suoi racconti nordici alternati a quelli sudamericani di Laura Pariani. Il romanzo «Hotel Borg» (Mondadori 2006) è fra i più belli che abbiamo letto negli ultimi anni, e non solo. Viaggiatore instancabile, con predilezione per l'Islanda, ma quasi di casa in Ungheria, Lecca si porta dietro alcunché di misterioso, di aristocraticamente lontano dalle origini cagliaritane che non rinnega. Nel nuovo romanzo «Il corpo odiato» (Mondadori, pp. 226, euro 18), Lecca affronta un argomento difficile in forma di diario di un ventenne anoressico con pulsioni omosessuali. A chi può interessare un libro simile? Non piacerà alla comunità gay perché se il ragazzo Gabriele, alla fine, sembrerà pacificato nel contraccambio amoroso con un aspirante ballerino, il problema è pur sempre impostato dal lato patologico (l'anoressia è una malattia). La storia di Gabriele serve poco per capire una realtà peraltro diffusa e dolorosa: in argomento, è più corretta l'analisi tentata nella canzone di Povia presentata a Sanremo, che ha ottenuto un premio della critica ed è stata catapultata al secondo posto assoluto dal pubblico dei televotanti. In tre minuti Povia, non senza scaltrezza, è riuscito a raccontare che Luca, oppresso da una madre possessiva e con un padre assente, conquista l'equilibrio con una donna che lo rende padre, riuscendo anche a perdonare (particolare importantissimo) i propri genitori. Il Gabriele di Lecca, invece, resta egocentricamente avvitato su sé stesso, è incapace di oblatività, vede narcisisticamente gli altri come specchio di sé. È interessante il conflitto di coscienza del ragazzo che non accetta il proprio corpo e cerca accoglienza nella discoteca gay: «Ancora una volta mi sono fatto del male in nome di una libertà che, alla fine, mi terrà prigioniero e mi porterà alla morte». Ma il finale, diversamente dalla canzone di Povia, manca di verità: a romanzo concluso, Gabriele resterà inesorabilmente esposto ad altro dolore, ad altre delusioni. Mancando di verità, il romanzo manca dunque della bellezza che della verità è lo splendore. Anche la scrittura, diversamente da quella a cui Lecca ci aveva abituati, qui è meramente paratattica, del resto come deve avvenire nel diario di un ventenne che, quando azzarda considerazioni aforistiche, distilla banalità. Qualcuno dirà: un romanziere è un narratore di storie, non è uno psicologo, né uno storico, né un moralista. È vero, ma un lettore di romanzi cerca nella letteratura qualcosa che comunque lo aiuti a capire e a migliorare la vita. E questo " se non si è lettori di professione " è un ulteriore motivo per non accostarsi a questo romanzo sgradevole, che non arreca contributi di conoscenza a un problema antropologico reale: noi abbiamo un corpo, o siamo un corpo? Ne ragiona Maria Teresa Russo, in un bel libro intitolato «Etica del corpo tra medicina ed estetica» (Rubbettino Editore), di cui ci occuperemo la prossima volta. Nicola Lecca, nella Nota conclusiva, sembra voler dissipare dubbi autobiografici. Lo aspettiamo con intatta stima dopo la chiusura di questa parentesi.
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