mercoledì 3 marzo 2004
Diffidava delle idee, sempre troppo precise per collimare con la realtà, la quale - lo sapeva per esperienza - è assolutamente fluida. Non è la prima volta che confesso la mia debolezza per la letteratura "gialla" e, quindi, non si stupiranno i miei lettori se oggi ricorro a quell'indimenticabile maestro di questo genere che è stato Georges Simenon (1903-1989) e al suo celebre personaggio, il commissario Maigret, brusco eppur umanissimo scopritore del bene e del male in una Parigi spesso ovattata e immersa nella notte e nella nebbia. In uno dei suoi romanzi, Maigret e il ladro pigro, mi imbatto in questa riflessione semplice ma autentica sul difficile rapporto tra idee e realtà. Siamo spesso così affezionati alle nostre idee da non aver esitazione a mutare i connotati della
stessa verità. E questo non vale solo per i filosofi o i potenti, si verifica anche nella quotidianità di ciascuno di noi. Siamo forse stati smentiti in una nostra supposizione da una serie di dati di fatto. Eppure continuiamo a conservare dentro di noi una sorta di retroterra in cui manteniamo vivo e fiorente il nostro preconcetto. Troppo spesso, poi, le nostre idee sono stagliate, nette e rigide, ignorano la duttilità, aborriscono dalla complessità fino a diventare le cosiddette "idee fisse". Schiodarle dal cervello e dal cuore diventa, allora, un'impresa ardua. La considerazione più ironica ce l'ha lasciata Manzoni a proposito di donna Prassede che di idee «ne aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata. Tra le poche, ce n'era per disgrazia molte delle storte; e non erano quelle che le fossero meno care».
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