I nostri filosofi, decostruttori della tradizione
venerdì 6 luglio 2018
Ognuno di noi sa quello che sa e guarda da lontano quello che sanno gli altri. Leggendo l'articolo di Donatella Di Cesare che apre l'ultimo numero della “Lettura”, un articolo dal sapore epico perché riassume l'intero Novecento filosofico come «Il secolo (lunghissimo) della filosofia», si è tentati di fantasticare un po' sul senso delle proporzioni di una tale sintesi valutativa. Infatti il primo capoverso suona così: «Il Novecento rappresenta uno degli apici della filosofia nei suoi 2.500 anni di storia. Lo caratterizza una radicalità che si esprime nel tentativo di decostruire la tradizione occidentale. La filosofia si interroga sulle sue radici, cerca un nuovo inizio». Detta così, la cosa sembra entusiasmante. Si può capire: ognuno cerca di farsi coraggio circa lo stato della propria disciplina e il valore della propria attività. Devo dire che i filosofi, però, risultano recentemente (nell'ultimo mezzo secolo) i più sovreccitati e ottimisti. La loro “radicalità” mi sembra più una smania e un gergo che una realtà. Credono di cercare «un nuovo inizio» interrogandosi sulle radici della tradizione occidentale: cercano di «decostruirla» (parola magica messa in circolazione dal funambolo Derrida), mentre di fatto non smettono di ruminarla e rimasticarla all'infinito sforzandosi di pensare in greco antico, come se tutta la verità fosse in quelle origini terminologiche, spremute come limoni, ripetute come mantra, nonché probabilmente equivocate perché pensate, usate fuori contesto. Noi da tempo non siamo più i Greci. La nostra politica non ha niente a che fare con quella della polis, il nostro logos, il nostro mythos, la nostra percezione della realtà, del cosmo e della vita umana non hanno più niente a che fare né con l'antichità classica né con il Medioevo e il Rinascimento. È vero che Adorno e Horkheimer, Weil, Arendt e anche il nostro Chiaromonte, fra anni Trenta e anni Quaranta, di fronte a nazismo e stalinismo, Auschwitz e Hiroshima, rileggevano l'intera cultura occidentale per spiegarsi il perché della sua catastrofe. Ma oggi quella motivata, urgente, drammatica radicalità riflessiva e critica si è trasformata in una farsa accademica, nel tic professorale di una corporazione che recita all'infinito il pensiero dell'alfa e dell'omega, la retorica dell'inizio e della fine. Filosoficamente il Novecento non sembra poi un gran secolo se si pensa a Spinoza, a Hume, a Kant, a Hegel, a Marx, a Kierkegaard (vero filosofo dell'esistenza). È stato un secolo di commentatori e di glossatori piuttosto ripetitivi e insieme pretenziosi. Non c'è più filosofia (o più pensiero!) in Proust e Kafka che in Wittgenstein e in Heidegger (falso filosofo dell'esistenza)? Non c'è più conoscenza della vita in Dostoevskij e Tolstoj che negli idolatrati Nietzsche e Freud?
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