giovedì 20 luglio 2017

Squilla il telefono. È l'ennesima chiamata che riceviamo, sos senza sosta per le più disparate situazioni. Questa volta è una nonna. La nipote di 13 anni, amata e solare, è improvvisamente cambiata: non vuole uscire di casa, non mangia, si vergogna della sua corporeità. Eppure non fa nulla di male, frequenta suoi coetanei giocando col telefonino. È vero, restano spesso soli a casa, senza i genitori, però, almeno, non sono per la strada… e via di questo passo. Appoggio il ricevitore e mi trovo a pensare: abbiamo ormai così assimilata la lezione di Cervantes, il quale metteva in guardia i don Chisciotte di turno a non scambiare mulini a vento con draghi, che siamo passati all'eccesso opposto. Oggi, per la maggior parte degli organi informativi i draghi sono solo mulini a vento. E così viviamo narcotizzati e del tutto fiduciosi nei confronti di un futuro roseo. Tanto che, se le cronache ci mettono in allarme registrando tempeste in arrivo, guardiamo in malo modo chi grida al lupo e ci appoggiamo beatamente a quanti, con tanto buon senso, sdrammatizzano.


Ma cosa vediamo quando guardiamo la realtà? Quale indagine e quale profondità di lettura riusciamo a dare del panorama odierno? La vicenda di Charlie, al di là dell'esito futuro, ha messo ben in chiaro con quanta faciloneria e superficialità si pretende di informare, di dare delle linee guida per un giudizio oggettivo. E la superficialità di giudizio poi viene a galla nella piccola e nella grande storia: dalla nonna della tredicenne fino alla situazione dei migranti, o della Siria o della Corea. Insomma: cosa sta succedendo? Ci sono tre domande a mio avviso che un uomo (o una donna) e una nazione non devono mai cessare di porsi: chi siamo? Da dove veniamo? Dove stiamo andando? Forse da troppo tempo, in nome di una coscienza europea, di un multiculturalismo o di un pluralismo di pensiero, tali domande sono state accantonate e negli articoli di fondo o nelle valutazioni circa il panorama storico attuale sono del tutto assenti.
Mi risiedo alla scrivania. Lo sguardo cade, per caso, su Il cesto di frutta dell'Arcimboldo, una delle sue pitture reversibili che lasciano senza fiato e di fronte alle quali attrazione e repulsione si alternano velocemente senza trovare ordine. Lo scopo dell'Arcimboldo, del resto, era generare inquietudine, lasciar trapelare il mostruoso dietro agli oggetti quotidiani. Ci è riuscito. Quasi offrendoci profeticamente un antidoto al buon Cervantes, il pittore milanese voleva risvegliarci al lato nascosto della realtà e al mistero dell'iniquità in atto anche dentro un innocuo canestro di frutta. Castagne, mele, pere e uva con il relativo fogliame che cosa mai possono avere d'impressionante? Eppure basta capovolgere il dipinto, basta guardare la realtà da un altro punto di vista et voilà, un volto terribile e sornione ci scruta indagatore, lasciando presagire il dramma.
A ben vedere mimetizzato nel cesto di frutta dell'Arcimboldo c'è il ritratto di un pittore, un artista che sta studiando il modo di comporre la sua opera. La domanda sorge spontanea: chi va compiendo le opere di cui siamo spettatori e, ahimè nostro malgrado, protagonisti? Lo chiedo alla nonna che ci ha chiamato allarmata, ma lo chiedo a tutti noi. Che il buon Giuseppe Arcimboldo ci regali questa sana inquietudine, mentre riposiamo davanti a quei mulini a vento che celano draghi minacciosi.

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