domenica 4 marzo 2018
La stagione era questa, fine inverno di trent'anni fa. Nevicava, grossi fiocchi bianchi e soffici. Il freddo pizzicava le orecchie da fare male e gli scarponi affondavano in mezzo metro di manto nevoso. Bisognava scavallare la montagna, risalendola dove capitava perché non esistevano percorsi stabiliti. L'altezza era da strappare il fiato ai polmoni. S'impennava fin quasi sui tremila di quota. Ad ogni passo bisognava improvvisare il cammino. Sapevamo soltanto che bisognava andare avanti, ma, a parte la difficoltà per il freddo intenso, da un certo punto in poi, dovevamo proseguire senza farci sentire e individuare. Né da terra e né dal cielo.
Dalla nostra parte, ad aiutarci, avevamo il cattivo tempo e quella leggera opacità nell'aria che chiudeva la vista già a una ventina di metri dinanzi a noi. Ma ciò non bastava a sgravarci dall'ansia e dalla paura di essere individuati e con ciò catturati, perché stavamo sconfinando. Con le ore e il freddo pungente, il cammino si faceva nervoso, soprattutto quando il silenzio veniva rotto dal latrato dei cani delle pattuglie di militari dislocati lungo la frontiera. Ci si passava vicino a poche centinaia di metri di distanza. E gli animali sentivano la nostra presenza di "prede" che s'aggiravano nei dintorni.
Partiti di mattina presto, riuscimmo a infiltrarci in territorio "nemico" che era diventata notte senza luna. Una cinquantina di combattenti afghani armati e due giornalisti al seguito, un italiano e un inglese. Non è stata la prima volta, quella. Ma di sicuro è stata la più faticosa e rischiosa. Attraversare le montagne della «North West Frontier Province», quella lingua di terra che separa l'Afghanistan dal Pakistan, in modo illegale. Cioè senza le necessarie autorizzazioni delle autorità locali, senza un visto d'ingresso stampato sul passaporto, senza un laissez-passer valido e pronto da sventolare alla prima richiesta. Senza un pezzo di carta per potere muoversi e vivere da uomo libero, senza paure né preoccupazioni di finire in una cella e, peggio ancora, malmenato.
Tante sono state le occasioni, come giornalista, di dovere attraversare confini tra due Paesi come un ladro. Certo si è trattato sempre di situazioni al limite, luoghi dove la parola pace non aveva domicilio e la tessera da giornalista era solo carta straccia. Luoghi dove la gente, certo, non si amava molto, un po' come accade tutt'oggi in Siria, Libia, Iraq, Yemen, Afghanistan, Repubblica del Congo, nord della Nigeria, Centrafrica, Burundi, Ogaden etiope, Somalia.
Quel ricordo delle montagne tra Pakistan e Afghanistan mi porta a quello che accade sul confine coperto di neve tra Italia e Francia. Tra Bardonecchia e Névache, dove migranti, senza un pezzo di carta con sopra un timbro a secco, senza un prezioso laissez-passer che renda la vita umana libera di movimento, con le scarpe da tennis tentano la "via della montagna" per oltrepassare l'ennesimo blocco terrestre. Una riga invisibile, che esiste solo sulle carte geografiche.
La storia di questi esseri umani la conosciamo oramai da decenni: sempre identica. Sappiamo i loro nomi, da quando partono, fino al loro traguardo finale. E che non sempre ha l'esito desiderato. Sappiamo anche come vengono maltrattati, come muoiono e dove. Ma ancora noi tutti non sappiamo come vivere in Paesi senza frontiere, per un mondo senza lacrime.
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