martedì 22 marzo 2022
Era la fine di giugno dello scorso anno. David Sassoli, il volto già segnato dal male che pochi mesi dopo l'avrebbe sottratto alla sua famiglia e a quella di tutta l'Unione, chiudeva a Bruxelles il vertice da lui promosso con i presidenti dei parlamenti nazionali dei Balcani occidentali. Nel suo breve discorso, auspicava “un futuro europeo comune”, nella convinzione non retorica che “l'allargamento rappresenta più che mai un investimento geostrategico per un'Europa stabile, forte e unita”. Suona drammaticamente profetica quell'affermazione, visto quanto accade in Ucraina e pensando a quanto tempo è trascorso inutilmente nelle trattative con i Paesi candidati, o ancora in attesa di essere considerati tali, per potersi infine unire ai Ventisette.
Nessuno ignora le spine e gli ostacoli oggettivi del dialogo tra la Ue e i sei Paesi dell'ex-Jugoslavia. Certo non li ignorava il rimpianto presidente dell'Eurocamera. Ma ora la dura realtà, imposta a tutti gli interlocutori dalla spietata aggressione russa alla non lontana Kiev, dovrebbe indurre a un'accurata quanto rapida riflessione tutte le parti in causa. Le scene di lutto e di devastazione che arrivano da est sono tutt'altro che una novità agli occhi di popolazioni che, a partire dal 1991 e per l'intero decennio successivo, hanno fatto esperienza sulla loro pelle di cosa vuol dire una guerra sul proprio territorio. E purtroppo la scia funesta di rancori e recriminazioni avvelena ancora il clima in alcune aree.
Mai come adesso, tuttavia, sarebbe opportuno imprimere un colpo di acceleratore. Alcuni passi recenti sono parsi incoraggianti. Il voto di condanna della Serbia all'Onu contro la Russia (anche se non seguito dall'adesione alle sanzioni, come invece hanno fatto Montenegro, Albania, Kosovo e Nord-Macedonia) è uno di questi. Così come il referendum popolare di gennaio, che ha ratificato la riforma sull'indipendenza della magistratura serba dal governo, per altro ancora carente sul fronte della libertà di stampa. E forse, visto che tra dieci giorni a Belgrado si va alle urne per eleggere presidente e parlamento, l'Unione potrebbe far sentire in modo più chiaro il suo supporto e l'invito ad allentare, se non a tagliare, l'antico legame con Mosca.
Più delicata, come noto, è la situazione in Bosnia-Erzegovina, dove la spinta separatista filorussa permane e rischia di aggravarsi. Tanto che la Ue ha da poco spedito 500 soldati riservisti della missione Eufor-Althea, a garanzia della stabilità interna. Una scelta fatta prima dell'invasione in Ucraina, dopo che la componente serba della autoproclamata “Repubblica Srpska” ha dato vita a strutture amministrative autonome e parallele a quelle di Sarajevo. Accanto alla dissuasione contro tentazioni avventuriste, tuttavia, sarebbe utile usare anche il linguaggio della persuasione.
Mentre sta per concludersi il primo mese di una guerra-spartiacque storico, che quasi nessuno a Bruxelles e nelle altre capitali si aspettava, l'Europa dovrebbe dunque mobilitare tutte le sue risorse migliori – politiche, diplomatiche, economiche e soprattutto ideali, se ancora ce ne sono – per cominciare a guardare oltre l'orizzonte della orribile tragedia in atto. Accanto al mantenimento e al rafforzamento dell'azione unitaria fin qui condotta, vanno moltiplicati gli sforzi per ricucire gli altri contrasti interni al Continente, non solo nel perimetro dei Ventisette. I Balcani, l'antico “ventre molle”, restano una sfida primaria e forse decisiva per la pace futura.
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