giovedì 15 marzo 2018
Una retrospettiva in corso fino a domenica alla Casa del Cinema di Roma, una raccolta di saggi e interviste tutta dedicata a Il ritorno di Monsieur Hulot (l'ha curata Alfredo Rovatti per Medusa) e, sullo sfondo, un elegante cartone animato di qualche anno fa, L'illusionista di Sylvain Chomet. Non mancano e non sono mancate le occasioni per tornare a fare i conti con il talento di Jacques Tatischeff, in arte Tati, attore e regista dall'ascendenza talmente complessa – intrecciata com'era di radici francesi e italiane, olandesi e polacche – da scegliere la strada del mimo anche sul grande schermo. Come se, avendo troppe lingue a disposizione, avesse ritenuto più assennato affidarsi al linguaggio universale dei gesti e di un silenzio metodicamente interrotto da esplosioni e cigolii, clangori meccanici e borbottii inintelligibili. Tutti insieme compongono il "brusio" elogiato da Coline Aymard in uno degli scritti selezionati per il volume già ricordato: «I rumori dei film di Tati sono quelli della vita quotidiana – scrive la studiosa –, accentuati da una buona dose di humour e ironia».
Nato nel 1907 e morto nel 1982, Tati non si considerava un intellettuale, come ribadisce a più riprese nelle interviste ora riunite nel Ritorno di Monsieur Hulot, compresa quella, fondamentale, rilasciata ad André Bazin e a François Truffaut, dove dichiara che «non è necessario essere un grande comico per trovarsi in una situazione comica». È la descrizione perfetta del personaggio da lui ideato e nel quale ha finito con l'identificarsi, il piccolissimo borghese Hulot, un tipo talmente comune da essere designato soltanto dal cognome, come succedeva una volta a scuola o in ufficio. Cappello in testa e pipa in bocca, l'impermeabile chiaro che svolazza dalla bicicletta o si impiglia in un'improbabile utilitaria, Monsieur Hulot è una delle maschere indimenticabili della comicità cinematografica. Ricorda il nostro Totò per la capacità di descrivere il mondo intero con una smorfia, ma è innegabile che nelle sue avventure sia presente la lezione di Buster Keaton, il taciturno per antonomasia, e dello stesso Charlie Chaplin. Monsieur Hulot, infatti, è quasi uno Charlot che ha imparato ad adeguarsi quanto basta alle regole del vivere sociale. In uno di film più riusciti della serie inaugurata nel 1953 da Le vacanze di Monsieur Hulot e conclusa nel 1971 da Monsieur Hulot nel caos del traffico, Tati si concede addirittura il lusso di riscrivere a modo suo uno dei più celebri copioni di Chaplin, Il monello.
Il tema è, ancora una volta, quello della libertà, solo che in Mio zio – la pellicola del 1958 universalmente conosciuta come Mon Oncle – è la nuova civiltà dei consumi a dettare le regole che tengono prigioniero Gérard, impersonato dal giovanissimo Alain Bécourt. Si tratta del nipote dello stesso Hulot, il quale, in modo più o meno inconsapevole, finisce con l'affrancare il bambino dalla posticcia sicurezza promessa dalla macchine per riconsegnarlo, in via forse non del tutto provvisoria, a una semplicità di vita dominata dalla dimensione del gioco e della leggerezza (Playtime, "Tempo di divertimento", èil titolo del film che Tati girerà nel 1967, proseguendo la sua poetica polemica contro le illusioni del progresso). Ma questa impresa di liberazione non trova affatto consenzienti i genitori di Gérard, i signori Arpel, ai quali gli attori Jean-Pierre Zola e Adrienne Servantie conferiscono uno straniamento degno del teatro di Ionesco. La loro casa, già popolata dalle risorse di quella che oggi chiamiamo domotica, non è di certo il territorio più adatto per la svagatezza di Hulot. Il quale, come al solito, riuscirà a far prevalere il principio di realtà senza neppure togliersi la pipa di bocca.
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