venerdì 7 dicembre 2012
Siamo frastornati di parole, ovunque e comunque. Persino sul silenzio, che invochiamo come una liberazione, non facciamo che parlare. Affoghiamo nelle parole, sostenendo tutto e il contrario di tutto, magari nell'arco di pochi mesi, o giorni. Viene da pensare a Lord Chandos, il personaggio del racconto omonimo di Hugo von Hofmannsthal, e alla sua Lettera: un manifesto, ha scritto Claudio Magris, «del deliquio della parola e del naufragio dell'io nel convulso e indistinto fluire delle cose non più nominabili e dominabili dal linguaggio». Il protagonista sente di non poter più scrivere perché nessuna parola gli sembra oggettiva, aderente alla realtà. Ma il problema non è tanto la sua esperienza individuale, la progressiva repulsione per i concetti astratti, che paragona a «funghi ammuffiti»; e non è nemmeno il silenzio della realtà. Quello su cui si interroga, fino alla paralisi e alla rinuncia a ogni attività letteraria, è l'affollamento delle voci, che ogni giorno si moltiplicano e lo assalgono, fuori e dentro di lui. «Il mio caso in breve è questo: ho perduto ogni facoltà di pensare o di parlare coerentemente su qualsiasi argomento». Lo scriveva all'inizio del Novecento e leggerlo oggi dà la vertigine. Un secolo dopo quel suo “caso” non è diventata la condizione di tutti noi?
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