mercoledì 4 giugno 2008
Giuseppe O. Longo, firma ben nota ai lettori di Avvenire, ha scritto uno di quei libri che, mentre li leggi, ti fanno sentire intelligente, perché chiariscono concetti che avevi in confuso, conducono più in là il ragionamento che non avevi osato formulare. Si intitola Il senso e la narrazione, ed è edito da Springer (pagine 212, euro 20). Longo è scienziato dell'Università di Trieste, ma anche studioso della comunicazione e romanziere, con una scrittura chiara e avvolgente, che procede per accumuli. È un libro alla McLuhan, cioè aperto alle digressioni, quasi multimediale, per ammissione dell'autore: «Se avessi cominciato a scrivere questo libro secondo un progetto rigoroso, seguendo un itinerario preciso, mi sarei trovato
ben presto incarcerato nella gabbia della rigidità, senza la possibilità di deviare, inventare, produrre novità. Invece mi sono presentato alla pagina bianca con la mia storia, con i miei interessi, con l'intenzione di stabilire un dialogo, di porre problemi, di esporre ipotesi caute e provvisorie»... e via accumulando.
La narrazione (per dar conto del titolo del libro) è più vasta e variegata della comprensione concettuale e, oggigiorno, forse più efficace. E il senso è il ponte che, col pensiero e in parole, costruiamo tra il mondo e noi.
Qui non è possibile rendere tutta la ricchezza del Longo-pensiero, per cui ci limitiamo a un paio di carotaggi. A proposito della traduzione, per esempio, Longo giustamente sostiene che non è o non è soltanto questione di lingua, ma di concezione del mondo che sottostà alla lingua, talché fa proprio il paradosso di Douglas Hofstadter secondo cui «la miglior traduzione inglese di un romanzo di Dostoevski sia, in ultima analisi, un romanzo di Dickens». Ben più modestamente, anch'io ho sempre sostenuto che la traduzione francese di «Roma è la capitale d'Italia«Paris est la capitale de France». Il problema della traduzione, infatti, «è costituito dai legami che il testo originale ha con il resto del mondo», e «il mondo visto dai Cinesi è diverso da quello visto dagli Eschimesi o dagli Italiani anche perché la lingua in (con) cui il mondo viene rappresentato è diversa».
Assai intrigante il rapporto fra etica ed estetica istituito da Longo. «La scoperta dell'arbitrarietà dei codici», da parte della tecno-scienza e, in particolare, dell'informatica, «ha sconvolto i legami tradizionali tra uomo e natura, che si esprimevano nell'estetica e nell'etica».
«L'estetica», sostiene Longo, «è il sentimento soggettivo (ma anche intersoggettivo) dell'immersione armonica nell'ambiente; l'etica è il sentimento soggettivo e intersoggettivo di rispetto e di azione armonica con l'ambiente di cui facciamo parte», ove «ambiente» non è inteso in senso meramente ecologico, bensì come «convivenza armoniosa con l'Altro, cioè con i nostri consimili e con la natura intorno a noi», anche se la maiuscola di Altro potrebbe spingere ancora più su.
L'arbitrarietà dei codici è alla radice anche del relativismo morale che Longo disapprova in nome dell'armonia naturale, etica ed estetica, che si tinge di assoluto, con le attenuanti e le esitazioni del caso: «È evidente che quando si sostituisce un'etica variabile a un'etica assoluta si devono affrontare molti problemi: aumenta la responsabilità individuale e collettiva, aumenta l'impegno nella ricostruzione continua delle norme "giuste", perché non ci si può più affidare al risultato della selezione storica della "morale più adatta"». Un passo in più e ci si avventurerebbe sul terreno solido della legge naturale, che però ha un fondamento teologico che, al momento, non sembra sfiorare l'interesse di Giuseppe O. Longo, almeno in questo bel libro.
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