martedì 8 luglio 2014
Era di questi giorni, ai primi di luglio, che si partiva. Alla stazione, la sera, l'afa su Milano toglieva il fiato. Ma già dopo la notte in treno, all'alba, l'aria limpida del Cadore aveva tutto un altro profumo. Erba, resina, fieno, registrava attento il mio naso di bambina. Un altro mondo ci si spalancava davanti: due lunghi mesi nelle Dolomiti.Di quel privilegio della mia infanzia oggi mi meraviglia soprattutto una cosa: la natura del tempo, in quelle estati. Era un tempo del tutto differente: lento ma non noioso, e denso invece, e anzi colmo. Le giornate iniziavano, di buon mattino, come con un passo leggero da bambine; poi con l'alzarsi del sole maturavano nella pienezza di luglio. Culminavano nel solleone a picco sulle montagne – dove, mi immaginavo io dalla valle, si andavano sciogliendo gli ultimi nevai, in uno sgocciolio lieve. Poi, il primo pomeriggio era l'ora silenziosa delle persiane socchiuse, delle stanze in penombra, del riposo. Alle quattro, col sole ancora alto, il tempo si faceva un fiume largo, maestoso, che si avviava regalmente alla sua foce. E al tramonto, nel rosa luminescente delle vette, ancora il sole non si arrendeva, e si voltava indietro, mentre affondava nella linea dell'orizzonte. Come se il giorno proprio non volesse morire.In questo corso piano e sovrano del tempo io, benché spesso sola, non mi annoiavo. Accompagnata dal pigro, lento rintocco delle campane del paese, ero capace di osservare per un'ora il trafficare di un ragno alla sua tela, o l'andirivieni di un uccello fra i campi e il nido. Ricordo anche di aver salvato, un giorno, una mosca che stava annegando in un bicchiere d'acqua: delicatamente estraendola e adagiandola su una carta assorbente, di quelle di scuola, e poi soffiandole piano sulle ali – fino a che non volò via. Oltre quarant'anni dopo è intatto nella memoria quel piccolo episodio – possibile solo in un solitario, pigro, bollente pomeriggio d'estate. Non lo sapevo, ma quel guardare profondo, in pace, era un principio di contemplazione; era adesione docile e felice alla realtà. E cosa perdono i nostri figli, nel tempo fittamente organizzato che, quasi ansiosi delle ore vuote, diamo loro: perdono il tempo generoso e infinito dell'infanzia. La gioia di riempirsi la bocca di ribes, mentre i grandi riposano: e sentirlo aspro, e insieme dolce sul palato. La gioia di spiare, immobili, in ginocchio, nell'ora più calda, l'alacre meraviglioso lavorio di un nido di formiche.
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