sabato 5 giugno 2010
Il 10 giugno 1940. La dichiarazione di guerra dell'Italia a fianco della Germania. La voce di Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia e gli applausi delle camicie nere e della gente, quasi si annunciasse una buona notizia. Impressionante come si può manipolare la coscienza di un popolo. Ero per caso vicino a corso Umberto, quella che dopo la guerra, con grande fantasia, abbiamo chiamato via del Corso. Mi sentii travolgere da quella folla che mi faceva paura e presi in fretta, con i miei libri di scuola sotto il braccio, una via laterale per andare a casa. Non si trovavano autobus a Roma che, al di fuori della grande piazza, sembrava deserta. Raggiunsi casa a piedi, ma per noi da quando frequentavamo la scuola delle suore francesi di Nevers, sul Lungotevere davanti all'isola tiberina, era cosa normale. La mamma dava ogni mattina, a me e a mia sorella Lucia, i soldi sufficienti per il tram, ma il problema sorgeva al ritorno quando si doveva decidere se prendere un maritozzo con la panna e andare a piedi fino a via Bonifacio VIII, nei pressi di San Pietro, o chiudere gli occhi nel passare davanti alla pasticceria e salire sul tram. C'era un'euforia tra la gente quel 10 giugno, quasi la dichiarazione di guerra fosse sufficiente per sentirci già vincitori. A casa, mio padre era silenzioso e preoccupato. Nelle poche pagine del suo diario, di cui non eravamo allora a conoscenza, non c'è una riga che riguardi quella giornata. Solo un appunto degli ultimi giorni di maggio ci può dare l'idea dell'atmosfera del momento. Egli scrive tra il 15 e il 20 maggio: «Giornate agitate per l'invasione dell'Olanda, del Belgio, della Francia. Il Vaticano è guardato militarmente, le processioni proibite. In Segreteria si dice che il Governo italiano non risponde alle rimostranze del Papa. Violenti attacchi del Regime fascista, mescolandovi anche il mio nome. Contrariamente a quanto prevedo, si vuol sapere che l'intervento italiano non è imminente. 12 giugno. L'Osservatore Romano
è sospeso». Segue poi un bollettino dello stesso giornale del giorno 13 che dice: «Poiché a causa delle circostanze attuali non ci è possibile continuare, come fin qui abbiamo fatto, la pubblicazione di tutti i comunicati ufficiali dei Paesi belligeranti, ci troviamo costretti ad astenerci da ora in poi dal pubblicare i vari bollettini di guerra». Lo stesso giorno alcuni ambasciatori di Stati esteri presso il Governo italiano, non avendo ottenuto il permesso di restare nelle loro sedi, prendono alloggio in Vaticano. Anche a Roma incominciano a suonare le sirene dell'allarme. Scrive mio padre nel suo diario: «Insonnia. Dopo tre notti in cantina, le bambine partono lunedì 24 giugno». Le bambine eravamo noi quattro. Andavamo nel Trentino, lontane dalle bombe e dalla paura. Avevamo una radio che non prendeva bene le trasmissioni dall'estero e ascoltare Radio-Londra era pericoloso. I giornali italiani, pieni di notizie positive ed entusiaste sui nostri soldati in guerra, ci arrivavano con un postino che saliva a piedi dal paese e da una casa all'altra accettava un bicchiere di vino, per cui alla fine scendeva in fretta cantando.
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