giovedì 12 ottobre 2023
Di ciò che era Kfar Aza prima dell’altra notte, sul web resta poco. Un villaggio bianco, prati curati, palme altissime. E, anche, un’immensa distesa di girasoli in fiore, del colore dell’oro, sgargianti. Ora, invece, tutte le immagini di Kfar Aza sono del colore del fango: i tank e le divise degli israeliani, e i sacchi neri dei morti, grandi, piccoli, allineati. Come se un’alluvione immonda avesse travolto le case linde, i girasoli, e i terreni verdi strappati al deserto.
Quei quaranta bambini. Di bambini, in guerra, ne muoiono sempre tanti, sotto le bombe, di stenti, di fame. Ma, volontariamente sterminare quaranta lattanti o bambini di poco più grandi, fare fuoco sulle culle o sui letti in cui dormivano abbracciati ai genitori, è altra cosa. È la mano di Erode, viva, che torna. Un preciso, preordinato massacro di innocenti, e non per il gesto di un folle, ma di miliziani di Hamas: che a casa certamente hanno
dei figli, e sanno, quali occhi hanno quei figli, a un anno. (Come hanno potuto, ti chiedi). E sì, sappiamo dei pogrom nazisti nei ghetti ebraici, e che dai vagoni blindati avviati verso i lager sporgevano anche mani di bambini. Sappiamo dell’Holodomor ucraino, e - con un certo ritardo – ci dissero ciò che accadde nelle Foibe.
Sapevamo insomma che la guerra non finisce mai; ma questa di Kfar Aza, questa roba non è guerra, questo davvero è il Male puro. Resterà, questo 7 di ottobre in Israele. Di stragi orrende, dall’11 settembre 2001, in questo giovane secolo ne abbiamo viste tante. Ma quaranta bambini – una nidiata, vi immaginate cosa sarebbero stati al risveglio, la mattina? – freddamente annientati, questa no, non chiamiamola guerra: è cieca volontà di sterminio. E noi che credevamo, noi figli del Novecento, che simili cose non sarebbero più accadute. La Liberazione, la pace, e il processo di Norimberga, e i Diritti dell’uomo solennemente ribaditi - quei capitoli, in fondo ai libri di storia, letti di fretta, a giugno, sotto gli scrutini, e così rassicuranti: quel passato fra noi non sarebbe tornato. La guerra dei Balcani è stata la prima frattura nella nostra certezza, ma non ci minacciava direttamente. I tank russi oltre la frontiera ucraina un anno e mezzo fa ci hanno sconvolti; e le fosse comuni, e le barbarie sui civili, sulle donne. Poi, lentamente, anche all’Ucraina ci siamo assuefatti (Kiev, in fondo, sembra lontana). Ma l’altra notte quello stesso spurgo di melma è venuto su dagli abissi in una mite notte in Israele, accanto a Gaza: sul Mediterraneo, il nostro mare. Erano quaranta bambini, dentro, speriamo, a un profondissimo sonno. Il ciuccio in bocca, l’odore dolce del latte addosso. (Come avranno fatto, quelli che hanno sparato?)
Ma qualcosa abita nel più buio recesso di noi, sotto terra, e in certe ore viene su, per profonde radici, viene alla luce. È il nostro male, quello da cui i cristiani chiedono nel Padre nostro di essere salvati: “Libera nos a Malo” ( spesso, in verità, lo ripetiamo un po’ distrattamente). Quasi ottant’anni dopo, com’è possibile? Che cosa ci accade? E forse cerchiamo di dirci che in quella terra aspramente contesa e divisa si respira violenza e odio da decenni, che insomma è “altrove” che si è aperto l’inferno, non da noi. Pure, questo 7 ottobre 2023 sembra una pietra smossa in un apparentemente solido muro, da cui si allarga una crepa profonda. Quel muro siamo noi, e quei bambini – quella cucciolata che al mattino si sarebbe svegliata festante, chiassosa, affamata -
erano in verità anche figli nostri.
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