giovedì 27 luglio 2017
In questi giorni durante l'intervista in preparazione di una mia mostra a ottobre è emerso un tema specifico cui tengo molto ed è tra quelli che sfida di più il senso comune e il politicamente corretto. La debolezza. La ferita. Nelle attività umane trattate come mero meccanismo produttivo esiste tutta una epica che assomiglia molto alla mitologia dell'amministratore delegato d'azienda. Attraversare i fuochi, sottoporsi a tutta una serie di attività parabelliche che determinano la facoltà di comando, di risoluzione positiva, di processo “vincente”. Pare non vi sia altra strada per raggiungere risultati. In parte è vero. Serve forza, determinazione e quant'altro per realizzare le cose. Ma è anche vero che questa filosofia spicciola del vincitore, rende un grande servizio alla economia dei polli d'allevamento, che sono suddivisi in classi, ma sempre polli rimangono.
Quella idea di vincitore è in realtà il ritratto del vincitore asservito. Nella intervista di cui sopra mi è stata fatta una domanda. Riguardava la sofferenza, il suo spazio nella creazione e lo scontrarsi con le debolezze nel generare una struttura, quella dell'opera, che deve avere certamente una sua solidità, e non si capisce come potrebbe nascere da una debolezza di partenza. Ho immediatamente realizzato che da sempre, per me, la ferita, la debolezza, il varco, sono la vera forza , il vero puntello dell'opera. La ferita è la risorsa. Per l'arte e per il pensiero.
Ovviamente deve prima o poi scatenare una reazione. La ferita si cicatrizza nella strutturazione dell'opera. Per usare un linguaggio corporeo a me caro, l'opera è il tessuto cicatriziale di guarigione della ferita interiore da cui scaturisce con urgenza la necessità della poesia. Non si dà cicatrice senza taglio. Per suturare il taglio serve però una chirurgia di qualità: feroce, decisa, sicura, capace ma anche naturale. L'opera, se è opera, è tutto questo. La chirurgia che permette la cura. L'artista vero è come un paria. Perché deve saper essere indifferente alle regole fissate per il mondo, dove la ferita è scandalo, viene negata, sotto un manto di ipocrisia, funzionale solo al ciclo produttivo, ma devastante per la identità. L'artista, il poeta, è nel mondo ma non è del mondo, per lo meno non è del mondo che si autoesautora nei suoi processi produttivi. Diversamente sarebbe uno dei tanti amministratori, nel caso migliore, a cui si fanno attraversare i ponticelli volanti, calpestare carboni accesi in imitazioni ridicole di antiche tradizioni tribali senza più alcun senso per sopperire a paure che stanno tutte da un'altra parte. Invece l'artista abbraccia la meravigliosa pedagogia dei contrari. L'accettazione di una logica indipendente dal politicamente corretto, dai valori che gli altri stabiliscono per te. Quello che è successo quando la pittura è diventata la mia casa prima ancora di farsi conoscere, evento che ancora non so spiegare del tutto, in realtà è avvenuto questo spostamento. Il salto verso la affezione per una logica che permette alla debolezza di generare un tessuto cicatriziale che come è noto, si riforma più forte di quello preesistente. La sua forza vive di una estetica nuova, diversa, segno di una vita che come i nodi degli olivi supera ogni intemperie.
Per me la poesia, attraverso l'arte visiva, è stata la porta verso la libertà. Mi è stato chiaro dal principio che non è data libertà senza accettazione totale, fisica senza indugi o sofismi, della potenza rigeneratrice della ferita costantemente aperta e costantemente in cicatrizzazione. È ora di smetterla di parlare della sofferenza come fatto patetico. La sofferenza è un fatto glorioso, perlomeno è quello che alla gloria apre la possibilità di manifestarsi. Infatti, tutta una pruderie intellettualistica, di gente che si è staccata da se stessa avvertendo la propria debolezza cosa ha fatto? Ha inventato un apparato ideologico per nasconderla, creando un artefatto completamente finto, gettando le basi per una società di corpi e menti frigide, che riuscirebbero a fare avvizzire al solo contatto anche la pianta più grassa.
(con questo articolo si chiude la rubrica
“Cuenta de hoy”, curata per “Avvenire”
dall'artista Raul Gabriel.
Tutte le uscite sono disponibili
sul sito www.avvenire.it)
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