mercoledì 10 aprile 2013
Giovanni Costantini ha fatto vacillare una mia convinzione che ritenevo inscalfibile: ho sempre sostenuto, infatti, che un poeta veramente grande scrive poco. Leopardi è un esempio lampante, ma anche Ungaretti è stato assai sobrio, magari limando e rilimando per anni le stesse poesie; Montale ha scritto solo quattro libri perché la copiosa produzione degli ultimi anni è di un Montale, pur grande, che non è il Montale fino a Satura. Invece Costantini ha scritto una cinquantina di libri che formano una catena montuosa che s'inarca in vette come Nel blu di Santa Trinita (1992), Lo Sposo è mezzanotte (2000), Versi intorno ai novissimi (2003), Sacerdos in aeternum (2010). Non solo: Costantini, che è sacerdote, scrive versi ogni giorno «per dare gloria a Dio che si è fatto uno di noi, il più bello tra i figli degli uomini, quella Parola Eterna che è Carne Nostra». Come faccia, nel suo oceano di versi, amantenere un tono così alto e riconoscibile, è un mistero che infittisce di pagina in pagina. Del resto, i lettori di Avvenire hanno trovato, il Venerdì santo, una poesia di Costantini, e già basta per farsi un'idea. Per saperne di più, ecco il nuovo libro, Attraverso la senilità, pubblicato con eleganza nella collana che Marisa Ferrario Denna dirige per Nomos Edizioni (Busto Arsizio, pp. 144, euro 14). La poesia del poeta sacerdote la si riconosce a colpo d'occhio: i versi si dispongono sulla pagina con spazi interni dilatati, le maiuscole stanno su impensati aggettivi, i puntini di sospensione non sono mai tre, come dappertutto, bensì due e così, più che sospendere, sembrano ribadire il punto fermo. Ma la pagina, che appare come una lapide abrasa eppur leggibile, acquista un'altra vita quando viene letta dall'autore, con la sua voce da arcaico profeta. Una volta, dopo un recital di Costantini, chiesi a Raffaele Crovi, che avevo accanto, che cosa ne pensasse. Sinceramente turbato, rispose: «Mi ha messo paura». Ebbene sì, è la paura del sacro, è il brivido della parola allo stato sorgivo, immagine della Parola. Da allora, Crovi designò sempre Costantini come «il più grande poeta cattolico italiano». Il tema della nuova raccolta, prefata con competenza da Alida Airaghi, è quanto di meno ameno si potrebbe immaginare: la vecchiaia, proprio la decrepitezza dei vecchi negli ospizi, abbandonati dai parenti, patetici nei tentativi di darsi un tono, un po' (o molto) fuori di testa, quasi sempre impreparati all'incontro con «la Signora grigia», più raramente in dialogo con Dio. Costantini li chiama gli Annosi, vessati da «infermiere che sbagliano dentiere», da «capisala/ che con il "tu" profanano il rispetto,/ al decadere d'ogni civiltà»; «E su questa misura/ le case di riposo si sfigurano in lager,/ dove guardie e guardati,/ come zeri concentrici, si sguardano». Da questo quadro alla Hieronymus Bosch, alla George Grosz, erompe un grido di denuncia per la condizione degli anziani in una società, la nostra, che non riconosce le risorse di saggezza che essi sarebbero ben lieti di trasmettere, e che non li rispetta, non li valorizza come «Avamposti dell'Eternità». Costantini non parla quasi mai di sé, e nel nuovo libro sarebbe fuori posto perché il poeta, classe 1936, non è ancora nella quarta età. Ma nella poesia «Così s'invecchia», ritrova e reinventa l'endecasillabo per dire pudicamente la sua brama di eternità, pur assediata dal tempo, e il canto si fa preghiera: «Cristo lo sai/ che vecchio me ne sto/ perfettamente Crocifisso a Te./ Il mio corpo sei tu,/ gli stessi chiodi: la carne dello scherno universale./ Inizio e fine/ nella Pietà Gelata».
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