venerdì 13 febbraio 2009
Attaccare il calcio italiano probabilmente fa fino. Già da anni lo facevano gli spagnoli, invidiosi dei nostri successi finché sono riusciti a vincere un Campionato europeo (ci han messo più di 40 anni) e si sono un po' chetati; lo ha fatto José Mourinho appena arrivato a Milano, come se provenisse dal paradiso del pallone e invece non aveva titoli né come portoghese, né come "inglese", risultati alla mano. (Poi, siccome
è intelligente, si è ricreduto e adesso lo aspettiamo fiduciosi alla prova Manchester United). L'altra sera, è bastata la sconfitta, annunciata, contro il Brasile nello stadio Emirates dell'Arsenal (una volta Highbury, luogo sacro al calcio in cui si esibirono il 14 novembre 1934 i "Leoni" di Pozzo e Meazza) per sollecitare gli inglesi a deriderci. Ingiustamente. Perché - senza scomodare per amari confronti la leggenda dei Leoni azzurri - l'Italia di Lippi è stata costretta a esibirsi in una partita i cui rischi non valevano il pugno di euro finito nelle casse della nostra Federcalcio. Il Brasile è una sorta di squadra/spettacolo viaggiante che affronta le amichevoli con lo spirito giusto, per divertirsi vincendo e vincere divertendosi, uno spirito lontano dal pragmatismo all'italiana che non sa vivere le amichevoli cercando l'esibizione fine a se stessa: gli stessi brasiliani d'Italia - numerosi e apprezzati - appena rivestiti della maglia verdeoro hanno ritrovato una voglia di divertirsi che raramente esprimono in campionato. Il calcio italiano - con la sua tradizione di grande concretezza spesso sbeffeggiata da avversari che ancora si dilettano di chiamarci catenacciari - in queste ore non è stato esaltato da Lippi, campione del Mondo, né da Capello, il grande vincitore che in Spagna, con la sua rinata Inghilterra, ha dovuto incassare una avvelenata sconfitta; ma da Trapattoni, nuovo eroe d'Irlanda, ora pericoloso outsider dell'Italia che si gioca un posto in Sudafrica 2010. Giovannino il modesto, il lavoratore, erede dell'antica scuola dei Viani e dei Rocco, sfortunato con l'azzurro eppure vincente in Germania, in Portogallo, là dove ammirano non tanto la spettacolarità del suo calcio ma il suo impegno a ricostruire e a vincere con l'unica arma che ha sempre esibito, anche nei giorni dei trionfi juventini o dello scudetto nerazzurro rimasto sospeso nel tempo quasi vent'anni: il lavoro. Non è "Stakanov" Trapattoni ma l'abile artigiano che non abbandona l'opera finché non l'ha realizzata secondo progetto e per ripagare la fiducia concessagli. Eppoi, ritrovo in lui un laico seguace dell'ora et labora che va ben oltre gli insegnamenti della zia suora o la caricatura che i media
ne fecero all'epoca degli scongiuri coreani. Almeno nella cattolica Irlanda Giovanni non troverà chi possa rimproverargli le bottigliette d'acqua santa esibite senza fortuna nel Mondiale del diabolico arbitro Moreno. Anzi, da ieri mattina, visto com'è riuscito a battere in rimonta la Georgia di Cuper, piazzandosi con l'Italia al primo posto del girone mondiale, gli irlandesi lo chiamano il «Trap dei miracoli».
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