lunedì 6 aprile 2020

Parole in libertà, in giorni senza libertà: chiusi per virus, non possiamo fare. Ma possiamo continuare a pensare…

Giorno 26

Ho letto da qualche parte che normalmente battiamo le palpebre 14 mila volte al giorno: sommando i centesimi di secondo di buio, significa che mentre siamo svegli teniamo gli occhi chiusi per 23 minuti. Chissà quanti sono adesso, forse un milione. Perché spero sempre che sia un antifurto impazzito quello che suona e mi fa chiudere gli occhi, invece non lo è mai, non lo è più.

La sirena che sento è una frustata, ripetuta, che mi dà ogni giorno la misura del dolore, la conta empirica della curva, il bollettino emozionale di come credo stia andando. Non serve vederle le ambulanze, basta il rumore. Allora, per consolarmi, chiudo gli occhi un attimo e provo a immaginare cosa sentivano altri prima di me, in un altro tempo, quello che non ho mai vissuto, quando la sirena era un allarme per fuggire, e non l’annuncio possibile di una fine.

Non so cosa sia la guerra, e non ho più nemmeno dei nonni purtroppo che possano ancora raccontarmela. Non so cosa sia, perché averla letta non basta, non può farmela sentire sulla pelle e nella testa. E non può aiutarmi a capire se i paragoni con oggi siano adeguati. Leggiamo e scriviamo dei medici “al fronte”, degli infermieri “in prima linea”, della “battaglia” contro il virus. Ora si sta reintroducendo un buono spesa che, anche se non c’entra, riporta al clima della tessera annonaria. Come la coda al supermercato che ricorda le file per il pane. Che non c’era, mentre oggi al massimo è finita la Nutella. Anche da questo posso immaginare che tutto sia molto diverso. E che stiamo usando termini impropri, probabilmente irrispettosi, anche se in buona fede, perché appunto, la mia generazione non sa, non ha visto. Noi non abbiamo quell’odore nel naso che va oltre la paura.

C’è una frase di Nicolai Lilin in “L’educazione Siberiana” che forse rende bene il concetto: “In guerra mi facevano più impressione i vivi, che i morti. I morti mi sembravano dei recipienti usati e poi buttati via da qualcuno, li guardavo come se fossero bottiglie rotte. I vivi, invece, avevano questo terribile vuoto negli occhi: erano esseri umani che avevano guardato oltre la pazzia…”. Noi, per fortuna, abbiamo ancora occhi diversi da quelli.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI