Derby, una rivalità che esiste perché esiste l'altro
mercoledì 4 gennaio 2017
Ci sono molte teorie riguardanti l'origine della parola derby, ormai diventata parte del nostro vocabolario. Una di queste, forse la più affascinante, risale a un gioco medievale, il Royal Shrovetide Football Match. Si gioca, annualmente e ancora oggi, il martedì e il mercoledì della Settimana Santa nel paese di Ashbourne, proprio nella contea Derbyshire. Il paese intero si divide in due e per 48 ore i contendenti devono tentare di portare la palla presso la porta avversaria, passando per colline, fiumi, piazze, campi infangati. Immaginate una gigantesca mischia di rugby con tre regole: 1) non si possono uccidere gli avversari 2) la palla non può essere mai nascosta
3) la palla non può transitare per le chiese e per il camposanto del paese. Tutto il resto è valido.
Ancora oggi il calcio fa dividere in due le nostre città, come succede a Roma, Milano, Torino, Genova il giorno del derby. Ci sono derby famosissimi nel mondo, basti pensare a Boca Juniors e River Plate a Buenos Aires, Olympiakos e Panathinaikos ad Atene, Galatasaray e Fenerbahce a Istanbul, Arsenal e Tottenham a Londra. Sempre, in queste affascinanti partite, gli aspetti puramente calcistici si intrecciano con temi che riguardano rivalità di territorio, di classe sociale, di modi diversi di intendere la vita. Il derby più profondo e antico del calcio divide in due la città scozzese di Glasgow. Si chiama Old Firm e lo giocano i biancoverdi del Celtic contro i blu dei Rangers. Anche in questo caso, per inquadrare la situazione bastano un paio di numeri: i Rangers hanno vinto 54 titoli scozzesi, i Celtic 47. In totale hanno vinto 69 coppe di Scozia, una Champion's league (il Celtic) e una Coppa delle Coppe (i Rangers). I Rangers furono fondati nel 1872, da quattro amanti del gioco del football che decisero quel nome in omaggio a una squadra di rugby inglese. Anni di dominio e di battaglie con i rivali del Celtic fino al 2011 quando, clamorosamente, il club dichiarò fallimento e dovette ripartire dalla quarta serie scozzese. Cinquantamila tifosi presenziarono al nuovo “esordio” contro spauriti dilettanti.
I Rangers ci hanno messo poco a risalire per tornare a sfidare i rivali a strisce orizzontali biancoverdi, quel Celtic fondato da Andrew Kerins, un religioso irlandese, meglio noto come Fratello Walfrid. Il suo scopo era preciso e nobile: raccogliere fondi per i poveri e gli orfani che vivevano nella zona est di Glasgow. Nel novembre 1887, Fratello Walfrid fece passare una circolare scritta a mano fra i bisognosi del quartiere. C'era scritto: «Sarà formata una squadra di calcio per l'allestimento delle tavole imbandite per i bambini e i disoccupati». Diciotto parole che ancora oggi sono scritte nello statuto di una squadra che il mondo acclama come Celtic Football Club. L'Arcivescovo di Glasgow e quattro Reverendi Padri, ciascuno con il contributo di 20 sterline, furono i primi firmatari della sottoscrizione.
Il derby di Glasgow, mette dunque in campo una rivalità storica fatta di sport, politica e religione: seppur con toni un po' annacquati dal calcio moderno, i Celtic restano i rappresentanti della parte cattolica, nazionalista e indipendentista della città, i Rangers della parte protestante, socialista e unionista. Sabato scorso si è giocato l'Old Firm, nell'Ibrox Stadium, casa dei Rangers. Per la cronaca ha vinto il Celtic, 1-2. Ma in questi giorni tutta Glasgow ricorda un tragico anniversario: il 2 gennaio del 1971 si gioca un Old Firm in quello stesso stadio. Zero a zero fino all'89esimo, quando segnano i Celtic. Molti tifosi di casa abbandonano le tribune in preda a una cocente delusione, ma negli ultimi secondi della partita Colin Stain, attaccante dei Rangers, segna il gol del pareggio. Attirati dalle urla di gioia come falene dalla luce, moltissimi tornano precipitosamente sui propri passi, creando una calca che porta alla perdita, per asfissia, di 66 vite umane, fra cui molti bambini.
Anche lo sport ci insegna che la definizione di un'alterità serve a definire la nostra stessa identità. Senza gli “altri”, infatti, non esisterebbe alcun “noi” e non dovrebbero servire eventi tragici per prendere consapevolezza di questa evidenza. Basta il buon senso per riconoscere che la nostra identità, fortunatamente, non può essere la sola e per esistere deve nutrirsi, nel senso più bello del termine, di alterità. Proprio questo buon senso sia allora l'augurio per un anno di derby (su qualunque campo da gioco) improntati alla tolleranza, al rispetto, alla fratellanza.
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