martedì 4 giugno 2019
L'Africa, il "gigante che dorme ai piedi dell'Europa", si sta svegliando. Non è chiaro però se la sua dirimpettaia del nord se ne sta accorgendo. Il 30 maggio scorso, quattro giorni dopo il voto che ha rinnovato il Parlamento comunitario di Strasburgo, al termine di una campagna elettorale dominata dal tema dell'immigrazione proveniente soprattutto dal Magreb e dall'insieme del "Continente nero", è infatti entrata ufficialmente in vigore la zona di libero scambio dell'Unione Africana, varata l'anno scorso nel vertice ruandese di Kigali. Un'intesa che tutti i 55 Paesi dell'UA definiscono storica, anche quelli come il Benin, l'Eritrea e la Nigeria che non vi hanno ancora aderito (ma l'appena riconfermato presidente nigeriano Buhari sembra ora intenzionato a stringere i tempi per la decisione e ad Abuja si scommette per un sì finale).
Al prossimo incontro dei capi di Stato e di governo africani, fissato per il 7 luglio nella capitale nigerina Niamey, partirà dunque la fase operativa del più imponente accordo commerciale mai raggiunto dalla fine del colonialismo: quello politico, è chiaro, perché quello economico è tutt'altro che alle spalle, pur non avendo più come protagoniste esclusive le vecchie e decadute potenze europee. Ma proprio la creazione alle nostre porte di una simile zona di libera circolazione di merci e servizi, capace in prospettiva di dar vita a un mercato unico per un miliardo e 200 milioni di individui, dovrebbe destare interesse e attente valutazioni.
Non si tratta naturalmente di lanciare allarmi contro possibili futuri concorrenti. Né di sollecitare ulteriori appetiti economici, che non hanno certo bisogno di stimoli per cogliere nuove opportunità di guadagni o, peggio, di speculazioni ai danni di popolazioni già troppo sfruttate. Il cuore della riflessione da compiere è soprattutto sul terreno geopolitico e culturale, partendo dalla non voluta coincidenza temporale di due eventi che riguardano i due grandi "vicini": da un lato l'Europa che esce dalla consultazione elettorale più frammentata e divisa al proprio interno, dall'altro l'Africa che, pur tra tanto scetticismo (in buona parte interessato), muove passi importanti verso un'integrazione fino ad ora impensabile.
Chi dal versante settentrionale ha realmente a cuore il destino dell'Unione Europea dovrebbe rallegrarsi per una simile evoluzione ai nostri confini. E non solo perché più sviluppo in Africa significa minore flusso di disperati che bussa alle nostre porte. A Bruxelles l'attenzione non manca e risultano già stanziati 60 milioni di euro come contributo alle spese per la realizzazione dell'AfCfta (la sigla della nuova zona di libero scambio africana). Ma oltre a quelli economici, occorrono "incentivi" di natura politica, soprattutto da parte delle cancellerie dei principali Paesi e in primis di quelli con il maggiore retaggio coloniale. Che almeno evitino di mettere bastoni fra le ruote per interessi di bottega nazionali.
L'Unione Africana aveva lanciato quattro anni fa ad Addis Abeba un ambizioso programma a lungo termine, denominato "Agenda 2063", che si richiama a principi come l'unità, la pace, la democrazia, lo sviluppo sostenibile, il rispetto dei diritti umani, la difesa e la valorizzazione del ruolo delle donne e dei giovani. Tutti valori figli della cultura che l'Europa ha costruito faticosamente e alimentato per secoli, pur attraverso contrasti e guerre sanguinose. Nella carta firmata in Etiopia spicca il riferimento a un "Rinascimento africano", in vista del quale vanno promossi anche libero scambio e apertura dei commerci interni. Per l'Unione Europea in crisi di identità è un invito a ritrovarsi e a riscoprire la sua vera ragione d'essere.
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