venerdì 20 marzo 2020
La controversia sui temi della legge e della giustizia, che anima la nostra quotidianità, è in verità questione antica e perenne. Chi lamenta l'ottusità della burocrazia e la complessità opprimente delle leggi (in Italia gli esperti ne contano più di centomila) potrà riconoscersi nella sentenza di Cicerone «somma giustizia, somma ingiustizia» (summum ius, summa iniuria) o di Terenzio «somma giustizia è spesso somma malizia» (ius summum saepe summa est malitia); chi, rassegnato, ritiene che i furbi la fanno sempre franca, troverà un avallo al suo pessimismo nella definizione con cui Anacarsi deride il legislatore Solone: «Le leggi sono come le ragnatele: i potenti le infrangono, i deboli vi rimangono impigliati». Lo stesso dibattito cruciale sulla bioetica, dalla nascita al fine vita, non rimanda forse all'alternativa, già presente nella riflessione classica, se la legge sia codice legato alla cultura oppure iscritto nella natura? Sappiamo con Tertulliano (Apologetico 1, 10) che a «rendere valide le leggi non sono né il numero dei loro anni né l'autorità dei loro promulgatori ma unicamente la giustizia»: eppure dobbiamo convenire che mentre tutti sanno cos'è subire un'ingiustizia, nessuno sa cos'è la giustizia. Dopo venticinque secoli siamo alla domanda di Alcibiade: «Dimmi, Pericle, che cos'è la legge?».
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