venerdì 19 ottobre 2012
Seguo in televisione «Europa Cantat», un festival dedicato ai cori europei. Ogni tre anni si svolge in un Paese diverso e quest'anno per la prima volta in Italia, a Torino. Ci sono cori (un'enormità, una folla) di ogni grandezza e genere, di montagna e di chiesa, di musica classica e contemporanea, di professionisti e di appassionati. Ascolto, guardo i visi dei coristi, la loro serietà e contentezza di cantare insieme, e constato quanto i cori, di tradizione antichissima, siano vivi. Essere "fuori del coro" nei nostri anni è un merito, un vanto: si esaltano le singole voci libere, stridenti in modo consapevole e fiero. Allora, al di là della piacevolezza musicale, mi chiedo che cosa mi affascini in quei cori, se ci sia qualcosa da imparare in quella coralità lontana da dogmi e convenienze. Un aspetto mi colpisce, probabilmente scontato, ma è quello che diamo per scontato ad avere bisogno di maggiore considerazione: come si possa, in uno stesso coro, essere diversi, per età, caratteristiche fisiche, provenienza e, immagino, convinzioni, e nello stesso tempo cantare in comune, estraendo ciascuno dalle proprie differenze un'armonia. L'Inno alla gioia di Beethoven, che l'Europa ha scelto per rappresentarla e che esprime la visione idealistica di Schiller di una fratellanza fra gli uomini, è un coro. È il caso di ricordarlo?
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