venerdì 11 dicembre 2020
Si cantava a Napoli, in vicinanza delle feste, una canzoncina che credo fosse di Renato Carosone o da lui divulgata: «mo' vene Natale,/ nun tengo dinare,/ m'accatto ‘o giurnale,/ me vaco a cucca'», cioè a coricarmi... E un coretto aggiungeva: «e vatte a cucca'/ e vatte a cucca'», va' a coricarti, stattene al caldo, e leggi le notizie di un mondo che, a Natale, può sembrare meno o più difficile del solito, a seconda delle condizioni economiche di ciascuno. Chi canta ancora le canzoni di Carosone (1920–2000), segnate dal jazz divulgativo statunitense? (Un suo antenato “soft” fu, in Italia, Alberto Rabagliati negli anni di guerra, col suo domestico swing accettato dal regime). La vitalità della canzone napoletana ha sempre avuto due basi e due strade: quella della canzone melodica e sentimentale che potremmo chiamare mediterranea e “arabeggiante” (il Mediterraneo veicolava e mescolava un tempo musiche e culture dall'Andalusia al Medio Oriente), e quella della macchietta, della canzone scherzosa e umoristica, molto spesso in presa diretta con gli avvenimenti e le mutazioni della storia e del costume. Con una vitalità oggi spenta ma un tempo strabordante e trascinante, e per questo amata lungo tutto lo Stivale, grazie soprattutto alla radio, e più tardi in tanti altri paesi, Carosone veniva dalle macchiette di Maldacea ma anche, possiamo dire, da Totò, e ha regalato agli italiani negli cinquanta e sessanta (con il suo complessino che comprendeva all'inizio due personaggi musicalmente coloriti e sfrenati come lui, Gegè Di Giacomo e l'olandese Peter Van Wood). “Musica, madre mia!” amava dire... È impossibile che un italiano di più di 50 anni non ricordi successi come Chella llà, Guaglione, Tu vuo' fa' l'americano, Maruzzella, ‘O sarracino, Torero, ‘A panzè, Pigliate ‘na pastiglia, Caravan Petrol… Di quando un popolo creava e trasferiva forme di spettacolo e arte popolari semplici e mirabili, di quando un popolo osava ancora creare e proporre una propria cultura, sincretica e formidabile, che aveva un suo santuario proprio a Napoli, ma che riguardava tutto il paese, per esempio col teatro dialettale, con i saltimbanchi e imbonitori delle fiere e della “Leggera”... Nel 2000 un giovane critico musicale napoletano, Federico Vacalebre, raccolse le memorie di un Carosone ormai in pensione in Un americano a Napoli, un libro che recensii con entusiasmo sul “Messaggero” e che mi meritò una lunga telefonata di Carosone, affettuoso e simpatico come mi aspettavo che fosse. Mi invitò ad andarlo a trovare, io presi tempo e lui, disgraziatamente, morì prima che io, cretino com'ero, mi fossi deciso a farlo...
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