giovedì 9 gennaio 2020
Viviamo nell'era della comunicazione, nel rinnovato impero della retorica, dove o parli e appari o non esisti. Quello che un tempo valeva per l'uomo di successo, il politico, l'artista, ora vale per ognuno di noi: per necessità, per piacere, per abitudine non disgiunta ormai da una sorta di nevrosi. I dispositivi connessi sono pari a 23 miliardi, e ogni minuto si inviano 187 milioni di mail, si scambiano 38 milioni di WhatsApp, e oltre 90mila persone aprono la propria pagina Facebook. Ma cosa comunichiamo? A una lezione di Master per giornalisti alla domanda quale sia il valore della parola "comunicare", nessuno dei centoventi presenti è stato in grado di rispondere; con i miei studenti, confesso, non è andata così male. Significa parlare e fare mostra di sé? Dare notizie eclatanti e soprattutto negative? Contrastare o aggredire l'interlocutore? Colorire i fatti ed enfatizzare i numeri per sorprendere, consolare o sedurre? Ricorrere a un linguaggio becero e lesivo della dignità altrui? "Comunicare" è "condividere (cum) la propria funzione, il proprio dovere, il proprio dono (munus). Il suo significato autentico, oltre a smascherarne le forme di devianza, ne rivela tutta la carica responsabile, positiva, finalizzata alla difficile bellezza del bene. Il bene "comune", appunto.
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