giovedì 11 marzo 2021
Che rapporto c'è tra chi scrive e chi legge? Chi influenza chi? Sono domande che i critici si fanno tutto il tempo. Ma la gente normale che domande si pone al riguardo? Quando si legge un romanzo cosa cambia in noi? Cosa accade quando lo rileggiamo a distanza di anni? Tempo fa, era il 1967, un grande critico inglese, Frank Kermode scrisse un bel libro “Il senso della fine, una teoria del romanzo”. Il Saggiatore lo ha ri-pubblicato nel 2020. La sua tesi è che in ogni romanzo c'è prefigurata la fine del tempo, ogni romanzo è una forma di apocalisse nel senso che è un attimo di sospensione nei confronti della vita, come se fosse vista da fuori, gettando uno sguardo sulla sua fine (e sul suo inizio). Ogni romanzo è in qualche modo un resto del messianismo, direbbe Walter Benjamin. Come antropologo dovrei dire che la letteratura è la nostra mitologia, nel senso che i popoli indigeni danno a questa parola, è il racconto dentro cui siamo e che ci dà senso.
Torniamo però alla gente normale, quella che di professione non legge romanzi, ma li legge per cercarvi un senso. Una mia cara amica mi raccontava qualche giorno fa di avere scoperto che uno scrittore siciliano, Michele Perriera, in un suo romanzo distopico sulla Sicilia del futuro, “A presto”, aveva per la protagonista femminile preso lei come modello. Se n'era accorta ora, adesso che Michele Perriera, che era anche stato il suo maestro di teatro oltre che un amico, era scomparso da qualche anno. Aveva riletto il libro e si era accorto che lui l'aveva letteralmente “rubata” per metterla nel romanzo. Mi aveva raccontato l'effetto che le faceva rivedersi nel libro, una se stessa di allora, di trent'anni fa. E aveva aggiunto che aveva cominciato con delle amiche a rileggere i classici, un'attività molto praticata in tempi di pandemia: un gruppo di lettura tra amiche che si scambiano le impressioni di libri letti in gioventù. Avevano deciso di rileggere “La mite” di Fëdor Dostoevskij. E anche in questo caso lei aveva recuperato sé stessa di allora, la persona che leggendo la novella trent'anni prima ne era rimasta impressionata, turbata, cambiata. Vi aveva visto una sé diversa, come se la sé di allora fosse venuta a farle visita. Le ho subito chiesto se non pensasse che Fëdor Dostoevskij avesse rubato anche lei. Si è messa a ridere.
È possibile che gli scrittori, i grandi scrittori si giovino dei loro lettori, anche di quelli postumi, per dare colore e spessore al proprio racconto? È ovviamente una domanda singolare, assurda, ma poi non tanto. Il romanzo si proietta ben al di là della vita di chi lo scrive. Vive in qualche modo da solo, risucchiando in sé i lettori futuri. C'è nella letteratura una specie di “comunione dei santi”, cioè un dialogo tra chi è stato e chi è presente, un passaggio tra generazioni. La letteratura è una specie di testimone che ci si passa per secoli di mano in mano. Ho capito allora cosa volesse dire Frank Kermode. La letteratura è sempre verso la fine del mondo.
Quando al liceo scoprii Petrarca mi impressionò la sua voce, e pensai che era così strano sentire a me vicino, presente, una persona vissuta cinquecento anni prima. C'è nella letteratura il mistero della continuità e allo stesso tempo c'è una problematica seriamente metafisica. Com'è possibile che gli scomparsi ci parlino? Nell'ultimo romanzo di Nadine Gordimer, “Beethoven era per un sedicesimo nero” lei immagina di trovarsi nello stesso posto di nuovo con due grandi amici da poco scomparsi, Susan Sontag ed Edward Said. E di stare bene con loro, come sempre, in uno spazio che supera e continua la vita vissuta: il romanzo come assaggio di Paradiso.
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