venerdì 30 ottobre 2015
Quando sono in buona (quando vincono) gli allenatori rispondono alle sviolinate degli opinionisti mostrandosi generosi con i “ragazzi”: «Tenete le buone parole per i giocatori – dicono con retorica solennità – sono loro che vanno in campo, giocano e vincono». Mi piacciono meno quando perdendo alcuni se la prendono con “i singoli” o con i reparti. Capita anche – è il caso del giorno – che pedatori autorevoli vadano oltre la misura abituale mettendo fuori gioco il tecnico. Riascoltatevi le parole di Gigi Buffon e senza metterci malizia, potrete concludere che il leader juventino ha praticamente licenziato Allegri. Fra le tante cose dette con l'aria di circostanza, accigliato, amarissimo, senza dedicare neppure un sorriso alla compagna Ilaria che l'interrogava a fine partita, c'è una insolita e durissima tirata polemica da archiviare alla voce “le parole sono pietre”: «Con la maglia della Juventus, se non si ha voglia di lottare e sudare si rischiano figure peggiori che con qualunque altra maglia... Oggi, in una partita importantissima, abbiamo giocato un primo tempo indegno, non abbiamo vinto un contrasto aereo né a terra: 45 minuti senza intensità emotiva, senza mordente...». Agitate quel «senza intensità» e vedrete apparire Antonio Conte. E questo è il problema di Allegri e della Juve: non tanto la mancanza di Tevez, Pirlo e Vidal quanto l'assenza di Conte e della sua Intensità nella quale s'identificava uno stile di lavoro e di gioco rilanciato dalle accuse di Buffon in difesa di una maglia e di uno slogan che Boniperti ha coniato facendolo diventare una regola: «Per la Juve vincere è l'unica cosa che conta». Ieri Evra ha accusato i compagni di lassismo, ma il primo a rivelare il disagio di squadra è stato proprio quel giocatore abituato a parlare ai presidenti della Repubblica per conto dell'Italia azzurra quando questa s'appresta ad affrontare tornei europei e mondiali. C'è sempre un po' di sana retorica, nelle parole di Gigi, nei suoi messaggi alla Patria, e così in quel suo ruolo delicato sul piano tecnico e umano che gli merita l'invocazione whitmaniana «O capitano! Mio capitano!». A chi poteva rivolgersi, con la rischiosa invettiva post Sassuolo, se non a chi ha la responsabilità di una squadra data per favorita e diventata «di pellegrini»? Chi deve rendere la Juve più aggressiva ed equilibrata, più degna della tradizione se non l'allenatore chiamato a proseguire il cammino di Conte e perdutosi non appena ha esaurito lo slancio e le provviste d'orgoglio ereditate dal predecessore? Per questo dico che le parole di Buffon suonano a condanna per Allegri, sollecitato a correre ai ripari prima del Derby. Mi ha colpito un precedente: lunedì, dopo la sconfitta con l'Inter, è comparso sui teleschermi il giocatore del Bologna Angelo Da Costa che si è esibito in una forte rampogna molto simile a quella di Buffon. E il giorno dopo Delio Rossi è saltato chiedendosi perché: non aveva ascoltato il suo portiere. Mentre Allegri ha dovuto bersi tutto Buffon come una medicina. Attendesi guarigione.
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