martedì 25 ottobre 2022
Camici bianchi cercansi, affannosamente. Medici “da importare” in Europa da ogni dove, anche a costo di compromettere la dotazione di professionisti in aree del pianeta già molto meno ricche delle nostre, a cominciare dall’Africa. Ha fatto molto rumore da noi la recente decisione di ingaggiare centinaia di medici e infermieri cubani, a sostegno della sanità calabrese, sempre più a corto di personale sanitario. La notizia è che parecchie altre zone e interi Stati del Vecchio Continente soffrono crescente penuria di personale per i loro sistemi sanitari. Ma soprattutto spaventano le previsioni per un futuro neppure troppo lontano, tanto che l’Ufficio regionale per l’Europa dell’OMS (l’Onu della salute) ha parlato in un suo rapporto diffuso il mese scorso di una “bomba ad orologeria” vicina ad esplodere. Ed ha aggiunto che disinnescarla non sarà per niente facile. Una delle cause del fenomeno è ancora una volta la demografia: da un lato l’invecchiamento della popolazione aumenta la domanda di assistenza, dall’altro la stessa età media molto alta del personale in servizio fa temere che si aprano presto vere e proprie voragini nei ranghi degli operatori vicini alla pensione, che le nuove e più ridotte leve in entrata non riusciranno a colmare. Un altro motivo di timore è legato alle conseguenze della pandemia da Covid che, oltre a causare direttamente la morte di forse 50 mila addetti del settore, ha provocato stress, stati d’ansia e depressioni in circa il 25 per cento dei dipendenti nell’intera Unione. Di qui la “caccia” aperta ai laureati dei Paesi terzi. Molto agguerrito, secondo antiche abitudini “corsare”, si dimostra ad esempio l’approccio della Gran Bretagna, che ha introdotto uno speciale visto d’ingresso per operatori sanitari e assistenziali provenienti da tutti i Paesi africani, con l’idea di facilitare il loro inserimento rapido nel suo sistema sanitario. Giorni fa, un centro di studi e riflessioni indipendente di Bruxelles, “Friends of Europe”, ha lanciato l’allarme contro una sorta di “rischio safari”: ossia che, per rimpiazzare i nostri vuoti, si creino pesanti squilibri nelle nazioni dove si formano medici e altri laureati in discipline sanitarie, che già faticano a dotarsi di strutture assistenziali adeguate ai loro bisogni.
L’alternativa, per l’Europa tutta e per la Ue in particolare, in forza dei suoi valori e dei principi di giustizia e solidarietà internazionale, dovrebbe essere invece quella di elaborare strategie coordinate tra le autorità responsabili dei due continenti. Da un lato, i giovani Paesi africani possono offrire la spinta di una demografia in forte crescita, sicuramente in grado di garantire a sé stessi e a tutti i popoli a nord del Mediterraneo le aliquote necessarie di nuovi professionisti. Dall’altro, le tecnologie e le risorse finanziarie dei Ventisette appaiono più che sufficienti per accompagnare la formazione dei laureati che occorrono, calibrandola sulle necessità sia delle aree di provenienza che in quella di possibile destinazione estera. Il tutto senza compromettere la libertà di scelta dei futuri camici bianchi. Di queste prospettive, anche alla luce della guerra in Ucraina, si proverà a discutere fra due giorni nell’ambito di un forum sulle emergenze in atto di Friends of Europe. Sperando che egoismi nazionali sempre risorgenti e tentazioni neocolonialiste non oscurino l’orizzonte comune, già così denso di minacce. © riproduzione riservata
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