mercoledì 19 dicembre 2012
Può succedere che a uno scrittore non riesca di scrivere, e Ginevra Bompiani lo confessa come genesi del breve romanzo L'età dell'argento, pubblicato nel 2001 da La Tartaruga e ora lodevolmente riproposto da et.al/Edizioni (pagine 96, euro 10). Un esercizio di scrittura per reimparare a scrivere: prima una riga, poi due righe, e ancora fino a venti, e così si dipana la nuova storia. All'inizio, tre parole: «farina», «silver age», «nostos». «Farina» del mulino dell'orco delle favole; «nostos», il ritorno dell'Ulisse che è in ciascuno di noi. «Silver age», l'età dell'argento, viene dal mito (di miti Ginevra si nutre fin dalle Specie del sonno", 1975) raccontato da Esiodo, secondo cui gli dèi avevano creato diverse specie di uomini: la prima d'oro, giovane e beata; poi d'argento, quella dei bambini che rifiutano di crescere, irrispettosi verso gli dei che li puniscono facendoli sparire nelle viscere della terra dove diventano diavoli mediocri. I diavoli, dice Ginevra, sono eterni bambini.Con questi pochi ma sceltissimi elementi viene confezionata un racconto in regola con il leggero strabismo della Giuditta di Lucas Cranach il Vecchio, che osserva il lettore da una fessura dell'elegante copertina. In una piccola isola si muovono la vecchia Ambra, il bambino Pàccaro, due Orchi, uno straniero di ritorno, che indagano, ciascuno per conto proprio, intorno a un delitto: la ragazza Cecilia inopinatamente trovata in fondo a un pozzo. È anche un giallo, dunque, ma tutto mentale, che giunge a conclusione attraverso l'incastro psicologico di insospettati indizi. In poche pagine, un grande libro.Diverso il procedimento narrativo del coltissimo Luca Saltini, svizzero di Lugano, studioso del Novecento, autore di Tattoo (Fernandel, pp. 176, euro 13). Qui un Alberto, padre di un delizioso bimbo i cui capricci di iniziazione alla vita sono descritti da Saltini con perfetta sincronia, con una moglie innamorata, laureata in lingue ma che ha scelto di fare la mamma a pieno tempo, questo Alberto, insomma, si fa prendere da un'Irene, bellissima barista con una rosa tatuata che occhieggia tra ma maglietta corta e la cintura dei jeans. E sarà la storia di un'abiezione, perché Alberto, stando al perverso gioco condotto da lei, si farà tatuare dapprima due lupi sul braccio, poi due alberi che si intrecciano sul suo petto, e infine due ali su tutta la schiena che non lo faranno mai volare perché Irene non aveva altro obiettivo che di umiliarlo. Seguirà una vendetta abbastanza atroce. E Alberto non si accorgeva di star replicando la storia di suo padre, del cui abbandono ancora portava le ferite.Sembra che Saltini abbia avuto in mente in primo luogo la trama e si sia applicato a svolgerla con meticolosa cura, aggiustandola lungo il cammino, fornendo esattissimi particolari descrittivi, composizioni di luogo, oggetti, abbigliamenti, odori, rumori, colori. Il che, invece di precisare, finisce per distogliere dalla trama, che in questo caso è il motivo prevalente dell'interesse del lettore, anche se la depravazione del professor Raat era già stata raccontata da Heinrich Mann nel 1905, da cui Joseph von Stemberg, nel 1930, trarrà il film L'Angelo azzurro che lancerà Marlene Dietrich nel firmamento del divismo. L'accostamento è casuale, ma spiega i procedimenti di scrittura: Ginevra Bompiani parte dalle parole, Luca Saltini dalla storia. Si racconta che Edgar Degas una volta abbia detto a Mallarmé: «Vorrei scrivere una poesia, ho tante idee, ma quando mi metto a scrivere non riesco». Al che il poeta rispose: «La poesia, caro Degas, si fa con le parole, non con le idee». Ciò non toglie che Degas sia un grande pittore.
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