mercoledì 19 novembre 2008
Gli aneddoti che Giorgio Bocca riporta nei primi capitoli del suo nuovo libro È la stampa, bellezza! - La mia avventura nel giornalismo (Feltrinelli, pagine 240, euro 16,50), episodi dei tempi eroici in cui il cronista andava a cercare la notizia sfidando la concorrenza dei colleghi, pare di averli già sentiti, fanno parte di un repertorio che viene sfogliato nelle scuole di giornalismo, e, del resto, Bocca li racconta o ri-racconta per sommi capi, come per risvegliare la memoria del lettore.
Anche le sue analisi della crisi non brillano per originalità: Bocca, buon ultimo, viene a spiegarci che il giornalismo è peggiorato per il prevalere della pubblicità sull'informazione, e che i giornali sono sfiancati dalla «corsa al gigantismo, a moltiplicare i supplementi, i giochi e i concorsi».
Non è lì l'interesse del libro, utile, invece per l'autoritratto che Bocca (classe 1920) disegna anche quando parla d'altro. Perennemente imbronciato (con due zeta), Bocca non salva nessuno, neppure gli amici, ed è severo anche nell'autocritica. La sua stagione professionalmente più felice è quella dei primi anni del «Giorno» di Enrico Mattei e di Italo Pietra, eppure «noi pensavamo di fare un sindacalismo politico, combattivo, non ci accorgevamo che spesso era arrogante e irresponsabile». E anche «Repubblica», che resta il suo giornale di riferimento, dopo l'euforia fondazionale, è diventato «giornale gigante in cui la qualità peggiora e gli editori pagano il superlavoro dei redattori con la firma facile, con l'appiattimento e la confusione dei valori».
Figuriamoci, poi, quando parla degli avversari. Il capitolo «Silvio e la televisione», è un grido di allarme per il regime «che c'è, eccome, come progressiva liquidazione della democrazia, dei suoi diritti, della sua libertà». Eppure, agli inizi, Bocca aveva accettato di collaborare a Canale 5, e solo a denti stretti ammette che la televisione non la sapeva fare, non «bucava il video», anche se la colpa sarebbe stata di non avere mai avuto «un regista capace». Ciò non toglie che Bocca e Guglielmo Zucconi per qualche tempo abbiano preparato un telegiornale «che veniva rimandato a tempo indeterminato. Era lavorare come per finta, ed essere pagati per fare niente ci dava un lieve stordimento».
Nel libro, i ricordi sono intervallati dalla riproposta di alcune inchieste memorabili: eccellente l'analisi delle ricadute negative del '68, e realisticamente impietosa la diagnosi dell'inguaribilità, quasi ineluttabile, del Mezzogiorno.
La scrittura di Bocca è paratattica, cioè fatta di brevi frasi accostate. La si potrebbe definire «indiziaria» nel senso che il giornalista allinea una serie di sintomi e di spiragli, ma non porta mai fino in fondo il ragionamento, come avverrebbe con l'uso delle coordinate e delle subordinate. Alla prosa di Bocca, orgoglioso delle sue origini contadine, si può riferire quello che Boito asseriva della musica di Verdi: «Si sente sempre la vanga», il che non intacca la grandezza del Bussetano.
Colpisce, in Bocca, la mancanza di ironia e di autoironia, anche nell'autocritica: Bocca è quello che, in compagnia, non capisce le barzellette, resta serio e ciò lo rende simpatico. Svolge dunque un suo ruolo nel gran circo del giornalismo che, come dice nell'ultimo capitolo, è «un mestiere bello», che dà «un sentimento pieno di partecipazione, la certezza di stare nella corrente della vita, e di starci non come un re travicello, ma come un uomo che sa nuotarci». Con la fiducia che «un giornalismo d'inchiesta, di fatti, ma anche di etica, continuerà a esserci, indispensabile a una società civile. Da fare con i mezzi che le nuove tecniche ci offriranno, ma anche resistendo ai loro comodi e alle loro tentazioni».
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