martedì 11 febbraio 2014
Quello era un mezzogiorno di Natale ed io ero solo come un cane ma mi sentivo piuttosto felice. Detesto l'albero di Natale che non si sa dove piantarlo a fine uso, odio gli addobbi, cianfrusaglie polverose e fragili che mi mettono la tentazione di lanciarle contro il muro più vicino. Un tempo si giocava a tombola, segnando i numeri sulle cartelle con bottoni e chicchi di granoturco e si cantava in coro. Quel giorno avevo preparato mortadella a volontà, mezzo chilo di michette fresche ed una buonissima bottiglia di barbera. Il treno per Parma è deserto. Fuori c'è neve, casolari isolati, qualche armento e chiesette innevate che trapassano il bianco con la croce metallica in cima al campanile. Io sono al caldo e traverso un presepe sterminato e inconsapevole. In sala d'aspetto, solo alcuni barboni; torno subito con un panettone preso al bar e il Natale è fatto. Ora piove e traverso a piedi la cittadina e non ho l'ombrello ma utilizzo la borsa in testa che reggo di lato con una mano alzata. La pioggia mi s'infila lungo la manica del cappotto e mi scende fino al gomito. Le chiese sono aperte ed io vedo la deposizione dell'Antelami. Quel gesto appena accennato del braccio che si stacca dalla croce, mi dà tutta la storia che spiega anche il perché del Natale con questi barboni miei.
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