domenica 27 novembre 2005
Vieni, Signore Gesù, vieni nella nostra notte/ questa altissima notte/ la lunga invincibile notte,/ e questo silenzio del mondo/ dove neppure un fratello conosce il volto del fratello/ tanto è fitta la tenebra;/ ma solo questa voce, quest'unica voce si oda:/ vieni, vieni, vieni, Signore! Siamo giunti all'Avvento che apre l'anno liturgico, mentre si sta spegnendo quello civile: è, questa, una sorta di parabola della vita che è seminata nella morte stessa. L'invocazione che suggella il libro dell'attesa, l'Apocalisse, quel «Vieni, Signore Gesù» reiterato (riedizione dell'antichissima giaculatoria aramaica del Marana tha', citata da s. Paolo), è alla base di questa strofa della «Ballata della speranza» di p. David M. Turoldo. Emblematico è l'orizzonte in cui siamo immersi. Esso è descritto con due immagini di assenza. Da un lato, c'è l'assenza della luce: è la notte, «nostra», altissima, lunga, invincibile, fatta di tenebra fitta. D'altro lato, c'è il silenzio che è assenza di parola, di dialogo. Senza luce e senza voce non si riesce a riconoscere il fratello che ti sta accanto; al massimo ci si scontra, ma non ci si incontra. Ecco, allora, l'invocazione che squarcia quel vuoto oscuro: «Vieni, vieni, vieni, Signore!». Abbiamo bisogno di una luce e di una parola trascendenti che riescano a mostrarci il volto dell'altro, a indicarci la via da percorrere, a scoprire un senso in mezzo a «questi termitai, a catene dolomitiche di grattacieli, a urli di sirene, a guardie che presiedono porte, a selve di ciminiere», come diceva ancora Turoldo. La venuta di Cristo ha proprio lo scopo di alzare il sudario di tenebra e di morte per illuminare il lavoro, il pensiero e l'amore dell'uomo.
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