Adesso come un secolo fa difendiamoci dal rischio di piagnucolare sulla fine
venerdì 24 novembre 2017
Il Novecento concluse la precedente Belle Époque, di lussi e spensieratezze ancora ottocentesche, precipitando nella prima grande guerra moderna: la prima che usò aerei e armi chimiche e che massacrò nelle sue trincee, dal 1914 al 1918, due generazioni di europei, i più giovani. Nel 1917 ci fu la rivoluzione leninista che prometteva di liberare la Russia da povertà e dispotismo, ma creò invece un regime autoritario e criminale, sia antiintellettuale che antiproletario, durato fino al 1991.
In questi ultimi anni si è molto parlato di tali eventi. Ma intanto ci chiediamo come è iniziato il nuovo secolo e il nuovo millennio, di che materia è fatto e che cosa promette. La nuova rivoluzione è quella tecnologica non solo informatica. La microbiologia e la manipolazione genetica promettono di cambiare la nostra vita dentro le cellule invece che moralmente e mentalmente. La psicanalisi sembra un vecchio arnese umanistico, sostituito ora da pillole, droghe e aggiustamenti del Dna.
I teorici del postmoderno, convinti di dire qualcosa di allegro e di farci sentire più liberi, annunciarono che la nuova epoca aboliva unità e totalità sostituendole con pluralità, differenza, assenza di radici, mancanza di centro, identità plurime, flessibili e plastiche. Ma che cos'è la globalizzazione se non una unità e totalità planetaria mai vista prima, che connettono tutto con tutto minacciando catastrofi a catena e contagi incontrollabili? Un mondo senza centro e quindi più libero? O un mondo a rete che funziona senza che nessuno abbia deciso, da nessun centro, come e perché?
Proprio un secolo fa, nel corso della Prima guerra mondiale, Karl Kraus, a Vienna, si mise a scrivere il suo dramma satirico-apocalittico Gli ultimi giorni dell'umanità. Qualche anno dopo, a Londra, uno dei più apocalittici poeti moderni, Thomas S. Eliot, scrisse il più famoso poemetto del XX secolo, La terra desolata, in cui sembrava annunciarsi la distruzione atomica («In una manciata di polvere vi mostrerò lo sgomento»), mentre in una composizione successiva, Gli uomini vuoti, concludeva che: «Questo è il modo in cui il mondo finisce / Non con un'esplosione ma con un piagnisteo».
Fatti tragici certo non mancano, ma il senso del tragico è finito. Non abbiamo abbastanza carattere per concepirlo? Franz Kafka, a Praga, negli stessi anni, scrisse una breve prosa, appena una pagina intitolata In galleria, che si conclude con queste parole: «Lo spettatore appoggia il viso al parapetto e sprofondato nell'ascolto della marcetta conclusiva, piange in galleria un pianto inconsapevole». Siamo noi? Un mondo di spettatori televisivi o interattivi forse sente che il mondo sta finendo. E piagnucola senza saperlo.
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