giovedì 8 dicembre 2016
Nei momenti di svolta della vita pubblica di un Paese si avverte ancora di più il bisogno di ritornare ai fondamenti della convivenza civile, di ragionare per princìpi, di uscire dalla gabbia dei soliti discorsi (siano essi fatti in "politichese", piuttosto che in "giuridichese"). Il tempo liturgico prenatalizio viene allora utile, in quanto ci presenta passi biblici di straordinario interesse anche letterario e civile: pur nella disattenzione, propria dei nostri giorni, e nella consapevolezza del principio di laicità (il quale tuttavia, nel nostro sistema costituzionale, non va mai confuso con l'indifferenza), possono aiutare la nostra riflessione.
Un esempio è proprio l'oracolo di Isaia (11, 1-10: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse»), letto quest'anno nella seconda domenica di Avvento: il celebre testo parla di un giudice-re che instaurerà un «regno» di giustizia e pace. Certo, in quel discendente di Iesse noi siamo stati aiutati a scoprire il volto di Gesù di Nazaret, il figlio di Davide, il consacrato del Signore, il principe della pace. E dunque non possiamo applicarne, direttamente e senza mediazioni, i caratteri a questa o quella vicenda particolare della vita di una comunità politica. Ma a quei princìpi e criteri per l'esercizio di un potere, sia esso politico o giurisdizionale (oggi conosciamo la differenza, e la teniamo cara!) siamo tutt'altro che indifferenti: «Non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire; ma giudicherà con giustizia i miseri e prenderà decisioni eque per gli umili della terra».
Nella varietà (e talvolta nell'opacità) delle vicende politiche e nella frammentazione di una società complessa, le scelte più importanti – pensiamo a quelle contenute in una legge di bilancio – devono guardare non al breve termine e agli interessi più forti, ma, appunto, devono essere decisioni eque per gli umili della terra.
Quelle caratteristiche del giudice-re sono poi, a ben vedere, riferibili anche ai governati, soprattutto in
uno Stato democratico, dove la giustizia non è più amministrata nel nome del re, ma del popolo, il quale esercita la propria «sovranità» nelle forme e nei limiti della Costituzione (tra questi, il referendum). Anche i governati devono evitare di dare giudizi secondo le apparenze e di basarsi sul sentito dire, e anche per essi vale il richiamo ai miseri (cioè a coloro verso i quali volgere il cuore, secondo quanto sperimentato nell'anno giubilare) e agli umili della terra.
Utopia (siamo a 500 anni dalla pubblicazione del capolavoro di Tommaso Moro), luogo che non c'è, visione astratta? Forse, ancora una volta, il «sentiero di Isaia» – come non ricordare qui Giorgio La Pira e le sue «attese della povera gente»? – riserva nuove sorprese, purché rimangano vivi in noi il senso dell'attesa, la speranza in un germoglio capace di sorgere anche su un tronco divenuto arido.
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