Le sentenze sgradite sono "politiche"? Il vizio del potere
Un pessimo tic della scena pubblica italiana è l'attacco alla magistratura quando un suo verdetto viene ritenuto come prodotto "contro" qualche attore della politica. Una lettura che deforma la stessa democrazia

Mi perdoneranno gli abituali lettori, ma la rubrica quindicinale di oggi risente di un crescente disagio: ogni decisione di una qualunque magistratura sgradita a chi sta al potere diventa il pretesto non per (legittime) critiche nel merito ma per attacchi scomposti e smodati alla magistratura nel suo insieme, o ai giudici, siano essi ordinari o amministrativi (ma il problema, ci era stato detto e ripetuto, non erano i pubblici ministeri?).
Questi atteggiamenti e comportamenti del mondo politico o di suoi segmenti non sono compatibili con la nostra Costituzione.
Il lapidario articolo 104 della Costituzione, secondo il quale la «magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» (che la proposta delle Camere penali voleva incongruamente e pericolosamente modificare, sopprimendo l’aggettivo «altro»), chiarisce che sta alla politica rispettare tale autonomia e indipendenza. Ogni giorno le magistrature adottano decisioni gradite ai poteri a ogni livello (sovranazionale, nazionale, regionale e locale), ma non per questo sono criticate come asservite a essi. Reciprocamente, quando tali decisioni risultano sgradite, possono essere discusse dal punto di vista giuridico, ma non equiparate a una decisione politica: farlo, significa la fine dello Stato di diritto, con la conseguente resa alla pura forza dei numeri e dell’arroganza.
Il disagio cresce ancora quando si assiste – e anche qui la cronaca purtroppo non è avara – alla mancata distinzione, in capo ai soggetti che rivestono cariche pubbliche, del profilo personale con quello professionale, politico-partitico e istituzionale. Sono distinzioni basilari per la vita democratica. Come sempre, la Costituzione ci è di aiuto, quando all’articolo 54 prescrive che «i cittadini ai quali sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore»: quali che siano la portata e il significato dei due sostantivi, disciplina e onore, non v’è dubbio che essi abbiano a che fare con quelle distinzioni basilari. Se faccio parte di un organo costituzionale, come il Consiglio superiore della magistratura, chiamato a garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, ho anch’io il dovere di essere e di venire percepito come autonomo e indipendente: non a caso la legge Cartabia del 2022 ha modificato l’articolo 1 della legge del 1958 (sulla costituzione e sul funzionamento del Csm) precisando che «all’interno del Consiglio i componenti svolgono le loro funzioni in piena indipendenza e imparzialità».
Poco più di tre mesi ci separano dal referendum costituzionale di primavera. Mesi nei quali l’alfabetizzazione istituzionale degli italiani potrebbe utilmente crescere: quali sono i compiti del Csm, che cosa distingue la magistratura giudicante da quella requirente, che cos’è la responsabilità disciplinare di un magistrato, sono tutte domande la cui risposta è preliminare per esprimere un sì o un no consapevoli. La polarizzazione urlata delle tifoserie è il contrario della consapevolezza e preannuncia un inverno caldo, troppo caldo, del dibattito pubblico.
È troppo sperare che cessi l’attacco quotidiano e ossessivo verso le magistrature? O, almeno, che i cittadini elettori sappiano fare la differenza tra la bontà degli argomenti e la propaganda faziosa che strumentalizza la funzione, quotidiana e difficile, dello ius dicere, cioè della giurisdizione, che è attività di protezione dello Stato di diritto, dunque dei cittadini stessi?
© RIPRODUZIONE RISERVATA




