Mi astengo, dunque voglio partecipare
La spinta partecipativa che raggiunse il proprio acme negli anni Settanta, si è via via indebolita. Ma le astensioni potrebbero essere lette come una domanda di più spazi di partecipazione
C’era da aspettarselo. Dopo l’ulteriore tracollo della partecipazione elettorale alle ultime consultazioni regionali, abbiamo per qualche giorno letto preoccupati commenti di alcuni opinionisti attorno alla malattia della democrazia, poi il silenzio: ciascuno è tornato riflettere sugli scenari italiani e mondiali o sull’ultimo fatto di cronaca, in un dibattito pubblico sempre più esposto a diversivi e a vere e proprie falsificazioni. Sembriamo insensibili alla eloquenza dei fatti: quale legittimità possono avere una maggioranza e un governo, nazionale o regionale, votati, quando va bene, da un quarto degli aventi diritto? Come non vedere che tale situazione, in parte comune ad altre democrazie, è particolarmente acuta in Italia? Eppure, da molti decenni si riflette sull’intreccio tra crisi della rappresentanza politica e crisi del rappresentato, cioè del cittadino-elettore: la spinta partecipativa, che raggiunse il proprio acme negli anni Settanta, si è, per molteplici motivi, via via indebolita, con la conseguenza di rendere sempre più isolato il circuito rappresentativo classico, consentire il perdurare di una “Repubblica dei partiti” anche una volta che questi ultimi abbiano smesso di svolgere il compito assegnato loro dall’art. 49 della Costituzione, smontare alla base il funzionamento di quegli istituti complementari alla rappresentanza (ad es., il referendum abrogativo, anch’esso divenuto sempre più eterodiretto) e marginalizzare i pur promettenti esempi di democrazia deliberativa che qua e là si è cercato di realizzare. Anche sulle proposte di favorire, attraverso un impiego accorto delle nuove tecnologie, l’esercizio del voto (elettronico, per corrispondenza, per procura, a domicilio per ragioni di infermità, anticipato presidiato) non sono state mai davvero prese sul serio, almeno nel senso di verificare sino a quale punto esse o alcune di esse siano compatibili con il modello costituzionale del voto
Per non parlare dei mutamenti delle leggi elettorali: in luogo di incentivare la loro trasparenza e dunque favorire la partecipazione, registriamo (ancora in questi giorni!) il tentativo di ricostruire arbitrari premi di maggioranza, dimenticando che il secco declino della partecipazione al voto fu coevo all’approvazione di quel Porcellum che resta una triste pagina della storia italiana. La riflessione su questi temi non manca: si veda il dibattito, promosso dall’Associazione italiana dei costituzionalisti e facilmente reperibile sul sito di essa, su come riattivare la rappresentanza delle istituzioni democratiche (con una “lettera” di G. Sorrenti e le “repliche” di A. Algostino, G. Azzariti, S. Curreri, F. Girelli, M.C. Grisolia, C. Pinelli, F. Pizzolato, S. Prisco e F. Zammartino). Da questi dibattiti emerge che le astensioni, o una parte di esse, potrebbero essere lette anche come una domanda implicita di più spazi di partecipazione. Per altro profilo, i mesi che ci separano dal referendum costituzionale di primavera sono, o potrebbero essere, un momento importante perché ciascuna formazione politica dichiari le proprie scelte in ordine al delicatissimo rapporto tra politica e magistratura (il vero nodo del referendum), così consentendo di ricostituire un collegamento reale tra rappresentati e rappresentanti. Si tratta di sogni irrealizzabili? Forse no, sempre che la politica voglia e sappia tornare a dialogare, oltre le semplificazioni e le invettive che servono soltanto a nascondere pochezza di idee e di visione.
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