Cosa significò 60 anni fa lo storico «Mai più la guerra» di Paolo VI all'Onu

Il discorso fu pronunciato in francese il 4 ottobre 1965, in occasione del ventennale delle Nazioni Unite, nel giorno di San Francesco d’Assisi. Era il primo Pontefice a parlare all'Assemblea generale
December 5, 2025
Cosa significò 60 anni fa lo storico «Mai più la guerra» di Paolo VI all'Onu
Una foto scattata il 5 ottobre 1965 in occasione della XX Assemblea generale delle Nazioni Unite, con l'intervento di Paolo VI, primo pontefice della storia a parlare all'Assemblea. La seduta era presieduta dal senatore Amintore Fanfani / ANSA
Dalla forza del diritto al diritto della forza. La crisi del multilateralismo, dei valori che davano forza agli organismi sovranazionali, è stata al centro di un incontro, ieri, all’Istituto Sturzo su “Politica , dialogo internazionale, cultura della pace”, a 60 anni dallo storico «Mai più la guerra» di Paolo VI. Il discorso fu pronunciato in francese il 4 ottobre 1965, in occasione del ventennale delle Nazioni Unite, nel giorno di San Francesco d’Assisi. Qui di seguito la riflessione di Andrea Riccardi.
Il discorso di Paolo VI all’Onu, il 4 ottobre 1965, rappresenta un passaggio decisivo per la Chiesa del Concilio, tanto che viene inserito negli Atti conciliari. Il Papa afferma all’assemblea generale dell’Onu: «Noi siamo come il messaggero che, dopo un lungo cammino, arriva a recapitare la lettera che gli è stata affidata… che noi portiamo da quasi venti secoli... da quando ci è stato comandato: andate e portate la buona novella a tutte le genti. Ora voi rappresentate tutte le genti». Un manifesto al mondo, rappresentato dall’Onu, che viene da quasi venti secoli di storia. L’ambizione è grande. Il riconoscimento del ruolo delle Nazioni Unite rilevante. Il Papa tratta le Nazioni Unite come organizzazione «sorella»: quasi l'istituzione più affine alla Chiesa cattolica.
Rilanciare l’Onu
Per questo il Papa sostiene una politica inclusiva: «avete avuto la saggezza di aprire l'accesso a questa aula ai Popoli giovani, agli Stati giunti da poco alla indipendenza e alla libertà nazionale; la loro presenza è la prova dell'universalità e della magnanimità che ispirano i principi di questa Istituzione».
Il Papa conosce le difficoltà dell’attività delle Onu. Nella bozza del discorso scrive: «Qui nulla si dice delle riforme dello Statuto dell’Onu (non sembra compito nostro il dirlo…)». Chiede però inclusione. La Cina, che gode del posto permanente al consiglio di sicurezza, non è occupata dal governo comunista, ma da quello nazionalista di Chiang Kai Schek, sostenuto dagli Stati Uniti. L’Indonesia di Sukarno era uscita dall’Onu. Il passo Papale sulla Cina è concordato con U Thant, un buddista birmano devoto, che ha voluto con forza la visita di Montini: «Questo onore, mai concesso a un uomo di Stato, dimostrerà che l’Onu – si legge in un appunto vaticano – considera l’autorità morale del pontefice al di sopra di qualsiasi Autorità temporale essendo di un altro ordine che riguarda la coscienza stessa dell’umanità».
Esperti di umanità:
la guerra e la pace
Nel 1964, Paolo VI aveva pubblicato l’enciclica Ecclesiam suam: «La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere… la Chiesa si fa colloquio». Il Papa, a Gerusalemme, nel 1964, aveva riannodato le relazioni con il patriarca di Costantinopoli, Athenagoras. Nello stesso anno, il Concilio aveva approvato il decreto sull’ecumenismo. Prima della fine del Concilio, Roma e Costantinopoli avrebbero decretato l’abolizione delle reciproche scomuniche comminate nel 1054 tra le due Chiese e fino allora in vigore. Il Papa parlava all’Onu anche a nome degli altri cristiani. Nel 1965, il Concilio approva il decreto sulla libertà religiosa, che rivedeva l’esclusivismo cattolico, atteso dai cattolici americani; ed anche la Gaudium et spes, dove, tra l’altro, si parla di costruzione della comunità internazionale e si precisa la necessità di «gettare le fondamenta internazionali di tutta la comunità umana al fine di risolvere le più gravi questioni del nostro tempo: promuovere il progresso… prevenire la guerra… In tutti questi campi, la Chiesa si rallegra dello spirito di vera fratellanza che fiorisce tra cristiani e non cristiani, e dello sforzo d'intensificare i tentativi intesi a sollevare l'immane miseria».
Questo patrimonio di visioni rifluisce nelle poche e meditate pagine del discorso. Ma con quale l’autorità parla il Papa? Viene dal Concilio e, dopo New York, torna al Concilio. Paolo VI, che offre «una ratifica morale» all’Onu, spiega la sua autorità: «Questo messaggio viene dalla nostra esperienza storica; noi, quali “esperti in umanità”...». Espressione felicissima, che colloca la Chiesa nella storia e testimone delle vicende dei popoli, i dolori, le guerre: «Dicendo questo, noi sentiamo di fare nostra la voce dei morti e dei vivi; dei morti, caduti nelle tremende guerre passate sognando la concordia e la pace del mondo; dei vivi, che a quelle hanno sopravvissuto portando nei cuori la condanna per coloro che tentassero di ravvivarle; e di altri vivi ancora, che avanzano nuovi e fidenti, i giovani delle presenti generazioni, che sognano a buon diritto una migliore umanità. E facciamo nostra la voce dei poveri, dei diseredati, dei sofferenti, degli anelanti alla giustizia, alla dignità della vita, alla libertà, al benessere e al progresso. I popoli considerano le Nazioni Unite come il palladio della concordia e della pace...»
La Chiesa, accogliendo il dolore di chi soffre per la guerra, si presenta all’Onu a partire dalla sua storia. È la base del rifiuto della guerra: «Il patto che vi unisce, con un giuramento che deve cambiare la storia futura del mondo: non più la guerra, non più la guerra!». Montini grida dalla tribuna dell’Onu: Jamais plus la guerre! Il cuore del discorso. Per lui significa «cambiare la storia futura del mondo». Ma la storia non è un titolo fragile per un leader religioso? Per i cattolici tradizionalisti, il Papa celebra all’Onu il «matrimonio» con il mondo, rinnegando «l’ordine antico della Cristianità, della sua fede, delle crociate». Il card. Silvestrini, grande diplomatico scrive: il Papa «non si appellò ad un qualche diritto divino; ebbe un solo richiamo, chiaro ma garbato, alla fede cristiana. Non si qualificava maestro, ma dietro le sue parole faceva avvertire il peso della storia del singolare popolo che veniva a rappresentare. E lo fece, parlando di pace e di giustizia internazionale, di fronte a Stati che in maggioranza non erano cattolici, anzi spesso socialisti o musulmani.»
Così il Papa afferma: «…i rapporti fra i popoli devono essere regolati dalla ragione, dalla giustizia, dal diritto, dalla trattativa, non dalla forza, non dalla violenza, non dalla guerra, e nemmeno dalla paura, né dall'inganno». Il Papa sceglie di non insistere sulla legge naturale. Non si vuole presentare come un maestro. Rovescia l'atteggiamento tradizionale: parla in base all'autorità morale che viene da una lunga storia e da un’esperienza di umanità e di condivisione dei dolori della storia.
Un colloquio con tutti
Il teologo pontificio propone, nel finale del discorso, la menzione del «Figlio di Dio», dopo aver ricordato Cristo. Così «si riaffermerebbe, velatamente, il carattere anche divino, e perciò attendibilissimo, del Messaggio Pontificio all’Onu». Papa Montini non crede che questa sia la strada. Non intende relativizzare la dimensione della fede. Fa però inserire solo qualche parola: «nuova storia, quella pacifica, quella veramente e pienamente umana, quella che Dio ha promesso agli uomini di buona volontà». Quindi aggiunge al testo il nome di Dio un'altra volta.
Le obiezioni del teologo mostrano come il discorso rappresenti una svolta nel colloquio tra la Chiesa e il mondo. Il colloquio era decisivo soprattutto per un clima propizio alla pace. Paolo VI parla di fronte ai rappresentanti dei governi, il presidente Johnson e il ministro sovietico degli esteri, Gromyko. Montini aveva rifiutato di ergersi sopra «l’abisso» della storia con «ali di colomba», lanciando dall’alto «le sue grida», senza misurarsi realisticamente con chi decide e con i problemi concreti. Non fuori dalla storia, per non contaminare la sua autorità, accetta il realismo dell'incontro per andare oltre la guerra fredda. Due principi enunciati nel discorso mostrano la via del superamento di questa: «non l’uno sopra l’altro» e «non gli uni contro gli altri». «Non l’uno sopra l’altro. È la formula dell’eguaglianza». Aggiunge: «Voi non siete uguali, ma qui vi fate uguali». ll Papa riconosce le differenze politiche ed economiche degli Stati, eppure nell’assemblea Stati diversi si fanno uguali. Tutti riconosciuti nella loro sovranità. Dal riconoscimento delle diversità, Montini approda all’eguaglianza degli Stati, perché c’è bisogno di tutti per assicurare la pace.
L’esaltazione di un paese sugli altri è stata all’origine di conflitti e soprusi. Chi ha vissuto le guerre del Novecento lo sa. Montini dice: «Ed è l’orgoglio… che provoca le tensioni e le lotte di prestigio, del predominio, del colonialismo, dell’egoismo; rompe cioè la fratellanza». Ripropone il senso del limite: «consentite che ve lo dica colui che vi parla, il rappresentante d’una religione, la quale opera la salvezza mediante l’umiltà del suo fondatore divino. Non si può essere fratelli se non si è umili».
Unità e pace: rinnovamento spirituale
De Lubac, teologo vicino a Montini, scrive: «Solo il cristianesimo afferma insieme indissolubilmente il destino trascendente dell’uomo e un destino comune per l’umanità». Il Papa precisa: «...questo edificio, che state costruendo, si regge non già solo su basi materiali e terrene: sarebbe un edificio costruito sulla sabbia; ma esso si regge, innanzitutto, sopra le nostre coscienze. È venuto il momento della «metanoia», della trasformazione personale, del rinnovamento interiore. Dobbiamo abituarci a pensare in maniera nuova l’uomo; in maniera nuova la convivenza dell’umanità, in maniera nuova le vie della storia e i destini del mondo, secondo le parole di S. Paolo: “Rivestire l'uomo nuovo, creato a immagine di Dio nella giustizia e santità della verità” (Eph. 4, 23). È l'ora in cui si impone una sosta, un momento di raccoglimento, di ripensamento, quasi di preghiera: ripensare, cioè, alla nostra comune origine, alla nostra storia, al nostro destino comune.»
Il rinnovamento spirituale, che riguarda tutte le religioni, è presentato dal Papa come una necessità per nuovi rapporti e costruzione di un destino comune tra popoli. E così conclude: «In una parola, l'edificio della moderna civiltà deve reggersi su principii spirituali, capaci non solo di sostenerlo, ma altresì di illuminarlo e di animarlo. E perché tali siano questi indispensabili principii di superiore sapienza, essi non possono non fondarsi sulla fede in Dio. Il Dio ignoto, di cui discorreva nell'areopago S. Paolo agli Ateniesi? Ignoto a loro, che pur senza avvedersene lo cercavano e lo avevano vicino, come capita a tanti uomini del nostro secolo?... Per noi, in ogni caso, e per quanti accolgono la Rivelazione ineffabile, che Cristo di Lui ci ha fatta, è il Dio vivente, il Padre di tutti gli uomini». Giovanni Paolo II, ad Assisi, nel 1986, esplicita l’esigenza di globalizzazione spirituale, chiamando le religioni a pregare le une accanto agli altri. Avviene vent’anni dopo il discorso di Paolo VI all’Onu. Quel discorso che, nell'accoglienza dei presenti, fu un successo, consacrò il Papa come grande leader morale. Paolo VI era stato mosso dalla convinzione di dover parlare alla «stazione finale, la stazione del mondo». La Chiesa, in questo modo, aveva raggiunto un punto molto alto della sua estroversione.

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