Se ci sono troppi decreti e poche leggi dovremmo provare a reagire

Il decreto-legge è una fonte normativa che la Costituzione prevede solo per «casi straordinari di necessità e urgenza», ma che è divenuta il principale strumento ordinario di legislazione
October 24, 2025
Se è corretto sottolineare che, nella fase attuale della vita dell’umanità, sembra che la forza (delle armi, dei soldi, delle tecnologie) prevalga sulle esigenze di giustizia e sul diritto, è altrettanto importante chiederci quale sia l’attuale condizione del diritto, il suo stato di salute. Limitandoci al diritto scritto e dunque all’insieme degli atti normativi, non c’è, soprattutto nel nostro Paese, da essere allegri: da decenni il sistema costituzionale delle fonti del diritto è attraversato da tensioni e ferite. La legge del Parlamento ha progressivamente lasciato il campo ai decreti governativi con forza di legge, in particolare al decreto-legge: una fonte normativa che la Costituzione prevede come eccezionale (“in casi straordinari di necessità e urgenza”), e che è divenuta il principale strumento ordinario di legislazione, comprimendo in misura significativa il ruolo parlamentare, di maggioranza e di minoranza, anche in forza del suo frequente abbinamento con la posizione della questione di fiducia. La pur attenta sorveglianza dei Presidenti della Repubblica e gli interventi della Corte costituzionale non sono sinora bastati per arginare un fenomeno che ha radici molteplici e che va di pari passo con le difficoltà della politica ad indirizzare una società sempre più complessa e articolata. Qualche giorno fa, la Corte costituzionale si è occupata, in camera di consiglio, di un ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dal deputato Riccardo Magi nei confronti del decreto-legge c.d. “sicurezza” n. 48 del 2025, nel quale il Governo, lo scorso aprile, aveva riversato pressoché integralmente il contenuto di un disegno di legge prossimo alla definitiva approvazione da parte delle Camere. Ancorché sia da tempo assodato che un parlamentare possa utilizzare tale strumento per tutelare le proprie attribuzioni, vi sono plurime ragioni (mi rifaccio a un lucido intervento di A. Pugiotto) per pensare che l’esito sarà quello dell’inammissibilità del ricorso stesso: se ciò che il ricorrente contesta sono i presupposti per l’adozione del decreto-legge, si tratta di una questione di legittimità costituzionale, che ha altre strade per arrivare alla Corte, e non di un conflitto di attribuzioni; a essere in discussione, poi, sarebbero semmai le attribuzioni dell’intera assemblea parlamentare, e soltanto indirettamente quelle del singolo. Tuttavia, il giudice costituzionale potrebbe “cogliere l’occasione” per ammonire governo e parlamento circa i confini e i limiti dei propri poteri nel campo della legislazione: decreti-legge non fondati su chiare ragioni di straordinaria necessità e urgenza, incidenti su materie che male si prestano a una compressione della discussione parlamentare o che siano il frutto di traslazioni da un atto ad un altro, alterano non soltanto l’intelligibilità dell’ordinamento, ma la natura stessa della rappresentanza parlamentare, che è ponderazione dei pro e dei contro, attenzione al medio e lungo periodo, prevalenza dell’interesse generale su quello particolare.  Non sempre i moniti della Corte sono una vox clamantis in deserto: se puntuali e argomentati, sono stati e possono essere anche un presupposto per successivi, più incisivi interventi. Vi è necessità di un diritto scritto che sia in buono stato di salute, in quanto abbiamo troppi decreti e poche leggi vere (e soprattutto – ma il discorso andrà ripreso – troppo poca legge, al singolare). Proviamo a darci una mano per reagire?

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