Mattia e il romanzo di fantascienza più interessante del prof

Uno studente molto intelligente, diretto e quindi scomodo provoca l’insegnante con una protesta che fa riflettere. «Credo di avere la capacità di scegliere come investire il mio tempo». E le regole?
December 20, 2025
Mattia e il romanzo di fantascienza più interessante del prof
Studenti all'uscita dalla scuola /Foto Siciliani
Le proteste degli studenti fanno sempre discutere, che siano gli universitari di medicina o i maturandi che si rifiutano di sostenere l’orale. Anche io, come prof, mi sono imbattuto nella mia carriera in diverse forme di protesta. Una delle più pittoresche, se così si può definire, fu quella di un mio allievo di quarta superiore, che fece infuriare un collega. Ricordo l’ingresso di quel docente in sala insegnanti: era furente e aveva ragione. Il ragazzo in questione era intelligentissimo, dotato di un elevato senso critico, ma a tratti anche duro, eccessivamente diretto; mai esplicitamente provocatorio, mai platealmente sgradevole, ma a volte scomodo o addirittura indisponente. Il collega raccontò l’accaduto. Stava spiegando e aveva notato che quell’allievo non seguiva. Lui, prof preparatissimo, molto deciso, appassionato, era subito intervenuto. L’allievo, che stava guardando sotto il banco, aveva alzato la testa. «Mattia, cosa stai facendo? Cos’hai lì sotto?». Mattia, sereno, aveva risposto: «Questo!». E aveva alzato un romanzo di fantascienza di Isaac Asimov. La sua naturalezza era riuscita a far restare il prof senza parole. Mattia aveva spiegato serafico: «Questo romanzo mi interessa più di quello che lei sta spiegando. Comunque studierò tutto sul libro, a casa, e nell’interrogazione prenderò un buon voto». Su quest’ultima affermazione non c’era alcun dubbio, dato che Mattia era uno degli studenti coi voti migliori della classe.
Ne era seguita una sacrosanta sfuriata, ma Mattia non si era scomposto minimamente, difendendo la sua posizione: se riteneva un argomento irrilevante per la propria vita, riteneva di avere il diritto di ignorarlo. Mi sentii subito dalla parte del mio collega, provai fastidio io stesso. Mi innervosiva l’atteggiamento di Mattia: se ognuno dei suoi compagni si fosse comportato come lui, noi prof come avremmo potuto fare lezione? Eppure comprendevo che quella sua forma di contestazione, o forse semplicemente quella sua scelta, in qualche modo conteneva una provocazione utile. Per questo gli parlai. Lui accettò il confronto, come sempre. «Prof, ho quasi diciotto anni. Credo di avere la capacità di scegliere come investire al meglio il mio tempo, no?». «Sì, Mattia, però ci sono delle regole, dal cui rispetto dipende una condizione di lavoro serena per tutti, non credi?». «Certo. Io però non impedivo ai miei compagni interessati di seguire. Ero in perfetto silenzio». «Ma pensa agli altri che ti vedevano! Il tuo atteggiamento ti sembra costruttivo?». «Perché, prof? Vedere uno che legge un romanzo distoglie chi è interessato da una spiegazione?». «E l’insegnante? Sta spiegando, ce la mette tutta e vede uno che legge un romanzo sotto il banco!». «Mi sta dicendo che un prof che insegna da tanti anni si offende se uno studente non segue una sua lezione? O mi sta consigliando di fingere di seguire?». Niente: non ne cavai un ragno dal buco.
La scorsa estate, quando alcuni studenti si sono rifiutati di sostenere l’esame orale della maturità in segno di protesta, mi è tornato in mente Mattia. Le sue affermazioni avevano qualcosa in comune con quella contestazione. Credo che la questione fondamentale sia questa: quanto la scuola tocca davvero la vita degli studenti? Quanto davvero li aiuta a crescere come persone? E quanto invece è, o viene percepita, come una noiosa imposizione, come un dovere arido, come una pressione volta alla prestazione pura? L’atteggiamento di Mattia con quel collega è assolutamente non condivisibile, proprio come è estremamente forte e provocatoria la scelta di non sottoporsi alla prova orale della maturità. Sono però convinto che un atteggiamento di pura censura, di critica, da soloni che hanno già la verità in tasca e si limitano a urlare O tempora, o mores! facendo il verso a Cicerone e spiegando a quei ragazzi come avrebbero dovuto comportarsi invece di fare ciò che hanno deciso di fare, non porti da nessuna parte. Ma non portano da nessuna parte nemmeno i tentativi di strumentalizzare quella protesta attraverso una acritica esaltazione. Trovo molto più promettente, di fronte a queste azioni, pormi e porre delle domande: le domande schiudono il cammino, aprono orizzonti, al contrario dei giudizi troppo netti, che costruiscono steccati. Potremmo ad esempio chiederci che senso hanno i voti nella scuola. Che senso ha il buon voto di Mattia in una interrogazione su un argomento che trova tanto irrilevante per la sua esistenza da leggere un romanzo di fantascienza durante la spiegazione in classe? Che senso hanno i voti di maturità e i voti in generale? Sono stimoli per un percorso o un giudizio sulla qualità di una persona?
Essere valutati è importante. Ottenere un voto positivo dopo essersi impegnati può essere un’esperienza molto formativa. I voti però misurano una prestazione scolastica, nulla di più: non sono un giudizio di Dio, non dicono nulla della qualità umana dei nostri studenti: occorre ricordarlo. Le persone non sono i voti che prendono, eppure quante volte io, da prof, ho faticato a vedere il valore di chi a scuola va male o molto male e invece ho colto con molta più facilità le qualità personali dei miei allievi più attivi, partecipi, impegnati, capaci di ottenere ottimi risultati con facilità? I voti sono un cartello che indica una direzione, non un proiettile da sparare su chi riteniamo inadatto o colpevole. Dobbiamo sempre ricordare che l’intelligenza non ha una definizione univoca: ognuno ha le proprie doti. Se uno studente si impegna, ma va male nella mia materia, non significa che non sia intelligente, significa semplicemente che ha un’intelligenza diversa dalla mia, in quanto essere umano unico, irripetibile e quindi diverso da me. Di fronte alle provocazioni degli studenti potremmo inoltre chiederci cosa sia per noi la scuola: un luogo accogliente o un campo di battaglia? Una spedizione verso una cima difficile, nella quale ci aiutiamo a vicenda, o uno Squid Game giocato tutto sull’eliminazione dei più fragili, sulla selezione dei migliori? La scuola forse può ambire ad essere una privilegiata palestra di felicità, se accetta la sfida delle interrogazioni e delle verifiche senza però scadere nell’ossessione per la prestazione e la selezione a tutti i costi. Una scuola esigente con tutti, ma che non riduce le persone a numeri.
Mi piacerebbe però porre una domanda anche a Mattia e a quegli studenti che hanno rifiutato di sottoporsi all’orale: voi agite seguendo i principi in modo assoluto o cercando di essere responsabili? I principi, se seguiti in modo inflessibile, possono portare a rifiutare la realtà, a tirarsene fuori, a contestarla. Tutto legittimo, ma poi? Non esiste realtà umana che sia come dovrebbe essere: le istituzioni, il mondo, le persone stesse non sono come dovrebbero, sono ciò che sono. È una banalità, ma bisogna farci i conti. La realtà, anche quella della scuola, si può rifiutare perché ingiusta o inadeguata, oppure si può vivere con amore, standoci dentro, cambiando le cose nella fatica di ogni giorno. Questo è lo stile della responsabilità, di chi si fa carico degli altri, di chi si chiede quale effetto la sua azione concreta avrà sul contesto intorno. Ricordo una classe estremamente competitiva, dove ogni interrogazione o verifica era l’occasione per una malsana gara a chi prendeva i voti migliori. Due compagne, che ottenevano voti molto buoni, ma si trovavano a disagio in quel clima, decisero una forma di protesta strepitosa: iniziarono a trovarsi al pomeriggio con i loro compagni più in difficoltà aiutandoli a studiare. Scelsero di avere più a cuore il miglioramento di chi faticava che il primeggiare. Non rinunciarono ai loro principi, ma li trasformarono in responsabilità, in cura, in dedizione. Mi commossero: se la protesta scuote, è la responsabilità che costruisce futuro.
Insegnante e scrittore

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