lunedì 10 ottobre 2011
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Napoli ne ha viste tante, passerà anche questa: di fronte all’ennesima emergenza anche così si può affrontare, o mettere da parte, il problema. E non è detto che qualcuno non abbia già imboccato una strada del genere. Senonché, mettere le mani sul welfare a Napoli è come stringere la corda all’impiccato. Per quanto sia entrato nel lessico degli affanni sociali, welfare è un termine fin troppo sofisticato per una realtà come quella di Napoli dove esistono da sempre forme di protezione sociale codificate da poche leggi, ma sostenute da comportamenti e prassi lungamente collaudate. A differenza di altri posti, la crisi, a Napoli, non è segnata da tempi o da periodi. È, per molti, una forma ordinaria del vivere che, spesso, impone il ricorso a una parola brutta anche da pronunciare: arrangiarsi. Non a caso, questo "darsi da fare" mettendo in campo l’uno e l’altro espediente, è diventato il suo modus vivendi. Di qui "l’arte di arrangiarsi", un fascio di erba buona e cattiva nel quale la solidarietà si pone spesso ai confini dell’eroismo e, sul fronte opposto, il ricorso ai mezzi sbrigativi spalanca la strada a un’illegalità senza confini. Il pensiero corre ai paradossi e alle contraddizioni di una comunità privata del bene della normalità. Ma in questo caso l’analisi va spinta all’estremo, per dire che sì, nel migliore dei casi, si "arrangiavano" i contrabbandieri di sigarette con i loro banchetti volanti ai bordi delle strade, o i venditori ambulanti e gli spicciafaccende di ogni genere, in una sorta di welfare già avvelenato alle radici. Ma proprio di fronte a quest’inquinamento di base, vengono i brividi a pensare che si possa svuotare il pozzo – già quasi essiccato – del welfare di segno opposto, quello arricchito alla fonte da una generosità a tutto campo, e che contrasta sul nascere anche questa forma di colesterolo cattivo che scorre nel tessuto sociale. Hanno certo imparato ad "arrangiarsi", e non da oggi, nel senso di mettere le toppe ai troppi buchi delle istituzioni, tutti i diversi operatori impegnati, a vario titolo, in quel mare magnum del disagio che a Napoli non conosce isole. Fare l’operatore sociale da queste parti è un mestiere che di per sé pone di fronte non a una ma a tante sfide, una dopo l’altra, e una più difficile delle altre. Non portano divise, ma il ruolo è spesso quello di agenti di un "pronto soccorso" a largo spettro. Le sirene di allarme suonano da ogni parte della città: è l’infanzia abbandonata, sono i ragazzi di strada, gli anziani, i disabili, le schiere sempre in aumento dei poveri a far scattare un allarme che ormai è costante. Si può chiamare emergenza, come tanti altri mali della città, ma in questo caso si è di fronte a chi, di ogni male e della spaventosa somma complessiva, porta un peso insopportabile. Anche la disfatta delle politiche sociali non è un dramma uguale sotto tutte le latitudini. E se proprio questo, oltre alle stesse cifre, serve a dare il segno di una devastazione senza fine, si può capire come a Napoli la scossa a cambiare registro sia venuta dagli avamposti di quella carità sociale annidata nella serie di istituti educativi e in quei conventi di suore dove la vita reale non solo entra, ma si manifesta a vele spiegate. Nessuna meraviglia, dunque, per la presenza di religiose a qualche corteo di protesta. Rappresentavano, più che mai, il volto di una Chiesa che, in questi tempi più difficili per tutti, si sente rafforzata nella sua scelta di stare accanto ai deboli, e di andare anzi a cercarli nei luoghi delle diverse emergenze. E in questo senso Napoli è davvero una "città aperta": soprattutto una Chiesa aperta, pronta a spalancare le sue porte per lasciar entrare il soffio di una speranza nuova. Sempre più il Giubileo indetto dalla Chiesa locale sta diventando il segno di una stagione nuova. E non solo per Napoli.
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