Il dialogo per fermare il settarismo
domenica 18 ottobre 2020

Quel corpo martoriato, immerso nel suo sangue in una tranquilla via alla periferia di Parigi, oltre all’orrore e alla pietà che suscita, sembra ribadire amaramente le parole da poco scritte da Francesco nell’enciclica Fratelli tutti, che con forza ricordano come «la violenza non trova base alcuna nelle convinzioni religiose fondamentali, bensì nelle loro deformazioni». Ed eccola lì, invece, la violenza, l’assassinio brutale in nome di Dio, perpetrato da un fanatico islamista in Europa.

Ancora una volta le vignette sul profeta Maometto di 'Charlie Hebdo', recentemente ripubblicate, che tanta indignazione e tanta violenza avevano provocato, sono nuovamente il pretesto per lavare nel sangue le offese alla propria religione. Certo, una riflessione andrebbe fatta se il vilipendio del sentimento religioso – praticato con una determinazione degna di miglior causa da quel giornale satirico – sia davvero una manifestazione della libertà di parola: infangare, deridere, insultare divinità, santi e profeti – quale sia la religione a cui appartengono – offendendo e ferendo nel profondo le coscienze dei fedeli che a quelle figure si rivolgono nella loro vita quotidiana sembra aver molto poco a che fare con la difesa dei diritti di espressione.

Ma di sicuro la risposta a queste offese non può assolutamente essere la violenza contro chi le ha commesse o, come in questo caso, verso un professore, che voleva indurre al dibattito su questo tema. Nel corso della loro storia, tutte le religioni hanno dovuto fare i conti con il complesso, doloroso rapporto fra sacro e violenza, fra difesa della fede e l’uso di mezzi coercitivi per realizzarla. Ma è indiscutibile che oggi sia l’islam, anche se certamente non solo l’islam, a doversi porre la domanda di come fermare la spirale di violenza che viene compiuta brandendo strumentalmente la bandiera della religione.

Non solo verso i non musulmani, come pensano molti, ma soprattutto all’interno dell’islam stesso, fra le diverse sue correnti, sull’onda della diffusione di una narrativa settaria e polarizzante, che ha a che fare più con le rivalità geopolitiche fra i diversi Stati mediorientali che con la teologia, ma che si nasconde facilmente dietro a essa. Proprio la brutalità delle violenze di questi decenni hanno spinto diverse autorità religiose ad avviare un percorso che ponga la tolleranza, il rispetto e il rifiuto della violenza al centro. Una riflessione non solo interna all’islam, che vede in Francesco un interlocutore privilegiato e uno sprone. Basti pensare alla Dichiarazione sulla fratellanza umana firmata ad Abu Dhabi nel febbraio 2019, proprio da Francesco e dal grande imam dell’università coranica di Al-Azhar, Ahmad al-Tayyeb, voce più autorevole nel mondo sunnita.

Uno dei i passaggi più significativi di quella dichiarazione è stato ripreso alla fine di Fratelli tutti, ribadendo così che lo spargimento di sangue non può essere mai giustificato dalla religione, ma è frutto dell’uso distorto e deviato del suo messaggio. È importante che le massime autorità religiose islamiche ribadiscano con forza questa condanna – come ha fatto ieri la stessa Al-Azhar – perché ancora troppe voci dentro l’islam mostrano un’ambiguità di fondo nel condannare ogni legame fra il sacro e la violenza.

Un rapporto che svilisce e snatura il discorso religioso, trasformandolo in una ideologia politica o in uno strumento di potere. In cui il messaggio più vero, che parla all’anima, si perde in un labirinto legalistico di norme e di imposizioni politiche. Tutto ciò finisce con l’avvelenare i rapporti fra le comunità, alimentando quelle narrative divisive e islamofobe che innervano la scena politica europea di questi anni e che giovano ai massimalisti di ogni fede religiosa.

L’obiettivo di questi ultimi, infatti, è convincerci che non solo noi non siamo tutti fratelli, ma che, con alcuni fra noi, non si sia neppure lontani parenti. Un messaggio avvelenato che dobbiamo rifiutare, ricordando che dobbiamo «adottare la cultura del dialogo come via, la collaborazione comune come condotta, la conoscenza reciproca come metodo e criterio».

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